Movimento 5 stelle, troppi mal di pancia e fiducia a malincuore

I voti di fiducia alle Camere per Draghi, prevedibilmente molto positivi, sono uno dei momenti più drammatici del Movimento 5 stelle. Democrazia diretta sì, ma il mito della rappresentanza?


La piattaforma della Casaleggio associati Rousseau si è espressa l’11 febbraio sul sostegno al governo Draghi. La consultazione del Movimento 5 Stelle su Rousseau che ha visto la partecipazione di ben oltre la metà degli iscritti (74.537 votanti su una base di 119.544 iscritti) ha dato il suo assenso con quasi il 60 per cento dei sì (44.177, il 59.3% contro 30.360, il 40.7%). È l’inizio di una diatriba interna che scuote il Movimento e che porta con sé possibili ennesime fuoriuscite. Non solo tanti mal di pancia dalla base, dunque, ma tanti “sì” stentati, quando va bene, nel momento del voto di fiducia alle Camere.

Il quesito, subito oggetto di critiche per la forma (anche quella grammaticale) e per gli “artifici retorici” utilizzati, era stato: «Sei d’accordo che il Movimento sostenga un governo tecnico-politico che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?».

La base del Movimento che si ribella

La polemica vera è tutta tranne che sui dettagli: l’arrivo di Mario Draghi, e di un’ampia alleanza di governo comprendente Lega e Forza Italia, è stato mal digerito da una fetta consistente del M5s, sia nella base che fra gli eletti, con diverse promesse di un secco “no” alla fiducia alle Camere. Non è un segreto l’indirizzo storicamente antieuropeista e contro i “poteri forti” del Movimento. Basti pensare all’esordio al Parlamento europeo con la missione di portare sul tavolo la proposta per un referendum sull’euro.

Una parte degli attivisti del M5s – ufficialmente circa un centinaio e col sostegno di diversi eletti al Parlamento – ha chiesto una nuova consultazione su Rousseau sul governo Draghi. Una seconda consultazione che non ci sarà. Alcuni esponenti “di spicco” come Toninelli e Taverna hanno espresso il proprio dissenso ma «rispettando la volontà della maggioranza» che è quella che si è espressa online. 

Nonostante il richiamo all’ordine di Casaleggio stesso e delle voci “dissidenti ma obbedienti” del Movimento, al Senato e alla Camera dei deputati una decina le defezioni alla prova della fiducia, quindici quelle più certe, tra cui Lezzi e Morra. 

Il quesito dell’inganno su Rousseau

Alcune voci rappresentative del coro apertamente contrario al governo Draghi lamentano una sostanziale non corrispondenza del quesito con l’effettivo “bottino” di governo. Il mega ministero per la transizione ecologicainaugurato sotto il nome del ministro Roberto Cingolani – avrebbe dovuto unire le competenze dei ministeri dell’Ambiente, dei Trasporti e dello Sviluppo economico. Così, in molti, dalla base si chiedono a cosa serva.

Nonostante il peso politico nella maggioranza, inoltre, il Movimento ha avuto poco dalla spartizione dei ministeri. Conferme per Di Maio e D’Incà, un ministero a Dadone, quello per le Politiche giovanili, e lo spostamento di Stefano Patuanelli all’Agricoltura.

Il passaggio più doloroso delle richieste della base dissidente è quello che chiede di mettere «gli iscritti nella possibilità di esprimersi sulla base di un quesito onesto, sincero, veritiero e reale sul ruolo del Movimento 5 stelle nel governo Draghi, e quindi una chiara espressione di voto degli iscritti, tale da consentire ai portavoce nazionali di non avere dubbi sull’indirizzo politico dell’Assemblea al quale uniformarsi».

Non solo, perché sotto accusa è l’intera operazione politica che ha portato a una consultazione – a detta dei dissidenti – falsata. La petizione dei contrari a Draghi chiede di mettere sul piatto «le responsabilità personali dell’attuale capo politico pro tempore e del Comitato di garanzia per l’avallo di una consultazione ingannevole».

Nella bufera, che dai vertici si cerca di scongiurare invitando all’astensione piuttosto che a un voto contrario, sono possibili (ma non probabili) delle «procedure disciplinari a loro carico [dei vertici del Movimento, ndr], per tutte le gravi conseguenze causate dal loro comportamento e contrarie allo Statuto».

Vecchie battaglie e nuovi dissidi

Con Mario Draghi la spaccatura era inevitabile. L’ormai battitore libero Alessandro Di Battista è uscito dal Movimento portando con sé il sostegno dei tanti che da anni lo seguono dalla base. Di Battista, fautore di quello che è diventato uno slogan polemico – «ne valeva la pena?» – in aperto dissenso su diverse questioni sul governo del Paese, ha inoltre comunicato il sostegno alla seconda candidatura di Virginia Raggi per le comunali capitoline, chiamando a raccolta quanti nel Movimento disdegnano la presentazione di candidati comuni col Partito Democratico, come accaduto l’anno scorso (e con risultati disastrosi).

A tal proposito, il neonato «intergruppo parlamentare» tra Pd, LeU e M5s – un’assemblea informale per il coordinamento dei lavori parlamentari su temi specifici e trasversali – è senza dubbio il segno della continuità della vecchia maggioranza del Conte bis. Potrebbe essere anche la spinta più decisa, al fine di strappare il Movimento da decisioni troppo “liquide” e incontrollabili, nella speranza di portarlo definitivamente a sinistra, in quella che è una conclamata strategia per il centrosinistra su indicazione del segretario Pd Nicola Zingaretti. È un indizio importante per future intese alle imminenti elezioni amministrative, nonostante dal Pd si tenda a diminuire il carico del significato politico dell’intergruppo.

Il M5s è nato sulla contrapposizione “popolo europeo-banchieri d’Europa”, e più in generale su quella “noi-loro” (in una rappresentazione più ampia di purezza e onestà al contrario del resto della politica) sullo sfondo dell’antipolitica e del voto di protesta. 

Ebbene, il Movimento non è più quello di oltre dieci anni fa, al momento della sua fondazione. S’è fatto partito, ha scoperto i compromessi, le alleanze di governo, l’arte di condurre un Paese verso obiettivi di breve e medio periodo. In una parola, il M5s ha conosciuto il potere.

Proprio in queste ore si è modificata la gestione di questo potere con un’importante modifica dello Statuto che sostituisce la figura del capo politico con un Comitato di cinque membri in carica tre anni. La base del Movimento ha infatti approvato il nuovo Comitato direttivo, al cui interno, a rotazione annuale, sarà individuato chi svolgerà le funzioni di rappresentante legale. 

Bocciato Vito Crimi, che a sua volta aveva ricevuto lo scettro da Luigi Di Maio, e promossi cinque esponenti (ancora da eleggere) per la definizione della linea politica del M5s. Poltrone che scottano, in questi giorni più che mai.

L’invito (inutile) all’astensione dei dissidenti M5s

Pur difendendo il voto secondo coscienza su «colui nel quale non abbiamo mai riposto grande considerazione per le sue pregresse scelte e azioni politiche» (Mario Draghi, in procinto di incassare un’ampia fiducia alle Camere), Davide Casaleggio ha chiesto di evitare rotture radicali con una più contenuta polemica, rappresentata dal voto di astensione, per «non creare una divisione nel gruppo parlamentare». Di fatto, però, l’espulsione è dietro l’angolo, la spaccatura insanabile.

Forse, a differenza delle consultazioni, neanche una visita di cortesia di Beppe Grillo a Roma può riportare gli animi a più caute considerazioni e serrare le fila del Movimento. «Now the environment. Whatever it takes», (“ora l’ambiente, a qualsiasi costo”) aveva scritto lo storico guru del M5s su Twitter rivolgendosi direttamente al presidente del Consiglio incaricato, l’ex numero uno della Banca Centrale Europea. Per dirla con una battuta, l’unico habitat da proteggere sembra il Parlamento per gli eletti favorevoli al governo Draghi, una specie da proteggere.

«Pensavo di incontrare un banchiere, ho incontrato un grillino» aveva detto Grillo ma, dalla base, gli “ingannati” dalla democrazia diretta della Casaleggio associati, professano una complicata, forse anacronistica, fede per l’intransigenza antieuropeista e per un difficile (ancora una volta, per la terza volta) no aprioristico alle alleanze politiche in Parlamento, soprattutto con Forza Italia. Dalle Camere, rispettando la democrazia diretta – «decide la maggioranza» afferma Toninelli a malincuore – o rispettando l’elettorato, un tale dissenso non può restare inascoltato.

Proprio il Movimento è stato portatore di un tema controverso (quanto inapplicabile) come quello del “vincolo di mandato” e del legame elettore-eletto. Si consuma qui lo scontro tra il partito che è diventato e il movimento degli attivisti, quasi attardato sul percorso parlamentare di questi anni. Il Movimento vota e parla come un partito: il voto in formazione compatta (caldeggiato ma fallimentare in questo caso) è tutto tranne che un voto di coscienza sospinto dalla “chiamata” alla rappresentanza popolare.

Quello sulla fiducia, da parte del Movimento, non è solamente un voto su un grande banchiere d’Italia e d’Europa, ma è soprattutto una scelta tra la “nuova” veste di partito che, in verità, il M5s indossa già da qualche anno, e il senso più intimo della rappresentanza dell’elettorato oltre che di una base di iscritti, entrambi generalmente ostili alle istituzioni europee e agli esponenti simbolo dell’ultimo ventennio dominato dagli «incappucciati della finanza», per dirla con le parole del senatore Paragone, fuoriuscito illustre del M5s. Il momento più drammatico del Movimento 5 stelle sembra arrivato proprio sulle stelle della bandiera europea, mai così luccicanti (e millantate da forze politiche impensabili) sullo scranno più alto del Consiglio dei ministri.

... ...