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Che cosa è davvero l’arte e perché fa paura?

L’arte potrebbe essere stata la prima influencer in tempi non sospetti. Come accade anche oggi, su di essa vi sono spesso molti giochi di potere per dominarla o censurarla.


Le immagini hanno avuto, da sempre, una grande dote, una facoltà comunicativa forte, silente e immediata. Potrebbero essere più importanti delle parole, riescono a rendere una visione più complessiva e possono racchiudere tanti significati; sono importanti veicoli, necessari per agevolare l’informazione, per l’evoluzione della civiltà, della cultura.

Basti pensare alle primissime pitture rupestri di Altamira in Spagna o di Chaveut e Lascaux in Francia, raffiguranti animali piuttosto realistici affiancati da figure umane stilizzate. Ciò fa pensare come gli “artisti della preistoria” vogliano e possano comunicarci, a distanza di secoli, ancora qualcosa della loro sensibilità o realtà, anche interiore. Le immagini sono, dunque, capaci di costruire un vocabolario nuovo che possa restituire il fermento della società e della cultura cui si riferiscono.

Ergo, l’arte, in ogni sua forma, nel tempo è divenuta il mezzo attraverso cui la comunicazione è diretta e diffusa con notevole semplicità, è mezzo di educazione per la società e di riflessione per il pubblico. Eppure, ci si sente minacciati da essa, proprio per questo suo tacito ma riconosciuto potere.

I regimi, in primis, l’hanno temuta  e continuano a temerla poiché ha sempre permesso di vedere cosa è giusto e cosa è vero, smascherando quei sistemi politici che, con i loro principi imposti, intorpidivano e intorpidiscono le menti, al fine di una loro più facile manipolazione.

I motivi per cui l’arte è presa costantemente di mira non sono però così semplici, e soprattutto non meramente legati a “ragioni di regime” o politiche, ma possono essere di tipo ideologico al fine di annientare la storia e l’identità di un nemico comprovate dalla presenza di tele o architetture a esso dedicato; di tipo trionfalistico, o ancora, alla stregua della motivazione politica, di stampo religioso. 

Non a caso, infatti, il primo episodio allora visto come primo atto iconoclasta – oggi sicuramente di censura – è legato al mito del Vitello d’Oro,  adorato dai fedeli alla stregua di un Dio in assenza del patriarca Mosè il quale, al suo ritorno, ne avrebbe ordinato l’immediata distruzione.

Tornando al fulcro del discorso, ovvero il tentativo della politica di mettere a tacere l’arte, volgiamo lo sguardo all’Arte totalitaria. Esempio per antonomasia è la messa al bando di quella che venne chiamata «Arte Degenerata».

L’arte totalitaria e  l’arte degenerata

Prima di prendere campo, i nazisti si “occuparono di arte”: nel 1927 fu fondata una società nazionalsocialista per la cultura tedesca con lo scopo di indottrinare il popolo sui rapporti tra arte, razza, scienza ed etica. Da qui, partì la guerra contro l’arte moderna, ufficializzata dall’istituzione della Camera della Cultura del Reich a opera di Joseph Goebbels, suddivisa in vari dipartimenti tra cui quella di Arti Visive. 

Da allora entrò in vigore il divieto di esporre “opere d’Avanguardia”: galleristi e direttori di musei venivano sorvegliati poiché promotori delle stesse e quindi possibili oppositori; molti artisti furono etichettati come degenerati poiché portavano avanti una ricerca al di fuori di ogni pedissequo realismo, e per questo furono perseguitati e talvolta costretti all’esilio.

arte nazismo
Goebbels visita la mostra “Arte degenerata” allestita a Monaco di Baviera nel 1937

Otto Dix, Wassily Kandinsky, Paul Klee, Edvard Munch, Pablo Picasso: artisti oggi conosciuti, battuti all’asta e dal valore esorbitante, si ritrovarono allora protagonisti di una mostra paradossale tanto quanto il suo intento, e che tuttavia fu letteralmente un successo!

La mostra Entartete Kunst di Monaco fu voluta fortemente da Hitler, poiché voleva attuare una distruzione dell’arte considerata immorale per il regime: qualsiasi tipo di arte che non favoriva un’immagine pubblicitaria del Paese sarebbe stata repressa, e in questa operazione il Fuhrer riuscì a circondarsi di uomini deputati al controllo della cultura, come il già citato Goebbels. Infatti, l’arte del regime, ovvero quella poi definita “totalitaria”, avrebbe dovuto proclamare imponenza, bellezza, la purezza della razza e l’autenticità tedesca. Questo era l’intento.

Tuttavia quest’arte, corrotta e immorale, aveva un grande valore, e i nazisti ne erano perfettamente a conoscenza: a tempo debito molte opere, furbamente nascoste e vendute, dimostrarono come il denaro e la necessità di preservare quelle opere risultano più forti e  importanti rispetto alla loro scellerata ideologia per cui compirono crimini contro l’umanità.

Regimi o dittature che furono e governi che vi sono. Sì, perché l’arte fa paura tutt’oggi, in termini diversi, ma è sempre paura: fa paura ai politici, tant’è che quando ne parlano cercano di appropriarsene mettendole sopra un marchio partitico per ricavarne profitto; talvolta, invece, è talmente temuta che si cerca di ignorarla, ma possente è il rumore che fa nella sua indole libera e liberatrice, da risultare quasi impossibile farlo. 

Allora la si vuol mettere a tacere, alla stregua di “moderni Savonarola”, cioè mettendo al rogo ciò che smaschera quel che è volutamente celato: quest’arte al servizio della società odierna di cui (e a cui) narra i problemi e le controversie.

Ai Weiwei e la Cina

La Cina, attualmente, è una grande potenza economica e politica mondiale. Una nazione, tuttavia, in cui – secondo il rapporto annuale 2019/2020 di Amnesty International – sono state legalizzate forme di detenzione arbitrarie e segrete, con un alto numero di sparizioni forzate e involontarie; una nazione in cui vige una stretta sulla libertà di credo e in cui sono stati danneggiati (se non distrutti) su disposizione del governo, templi, statue buddiste e taoiste, moschee e chiese. 

È quasi “scontato” asserire che in Cina viene attuata una discriminazione  a 360° nei confronti della comunità LGBT, i cui componenti sono soggetti, altresì, a terapie di “conversione” non ancora messe al bando dal governo, nonostante dal 2014 l’omosessualità non venga più tacciata come “malattia”. Discriminazione enfatizzata dalla censura di contenuti riguardanti gay e lesbiche nelle più importanti piattaforme e social network cinesi.

Ad avere un conto aperto con il governo cinese è l’artista, blogger, archistar Ai Weiwei: lui, infatti, conosce bene il meccanismo della censura. Con irriverenza sprezzante, pur tuttavia consapevole delle pesanti conseguenze, con la sua arte Ai Weiwei ha scoperchiato il famigerato Vaso di Pandora, svelando ciò che è stato insabbiato e che tale deve rimanere.  Come l’effettivo numero delle giovanissime vittime del terremoto di Sichuan del 2008,  i cui corpi furono sepolti dalle macerie della scuola: a loro dedicò una installazione intitolata Snake, ovvero  un serpente, composta dai 360 zainetti, unico effetto personale di quelle vite spezzate e spazzate via troppo presto. 

Non ritenendo efficace l’installazione, Ai Weiwei decide di rendere noti sul suo blog tutti i nomi dei bambini che avevano perso la vita (all’incirca seimila); il governo, difatti, ne aveva resi noti un numero di vittime minore, discostandosi così dalla responsabilità in merito alle scuole “non a norma” costruite con materiali scadenti.

Ciò che doveva esser taciuto era sulla bocca di tutti: il blog ebbe il boom di visualizzazioni, motivo per il quale venne oscurato nel 2009, Ai Weiwei arrestato e imprigionato per 81 giorni, non prima di essere ferocemente picchiato dalla polizia cinese, percosse che gli causarono un’emorragia cerebrale per poi essere sottoposto a un intervento salvavita. Ma riuscirà, tuttavia, a trarre del positivo dalle nefandezze subite.

S.A.C.R.E.D. , Biennale di Venezia, 2013

Ai Weiwei, infatti, trasformò la sua prigionia in una installazione S.A.C.R.E.D., proposta alla 55esima Biennale di Venezia: si autorappresenta all’interno di un modellino in scala, in fibra e vetro, del luogo sconosciuto in cui era stato detenuto, dalle luci sempre accese, perennemente sotto sorveglianza e interrogato. Voleva rappresentare la sua umiliazione ed è ciò che effettivamente traspare. La risonanza magnetica, invece, effettuata dal post-emorragia cerebrale è divenuta un’opera di aperta denuncia contro le violenze da parte dello Stato, dal titolo Brain Inflaction.

Ultimamente l’artista è tornato a far parlare di sé grazie al crudo lungometraggio Coronation. Il film, di circa 100 minuti, è stato realizzato da remoto – l’artista è in esilio in Europa dal 2015 – grazie alle immagini  e i video girati da volontari, eludendo la sorveglianza, durante il forzatissimo lockdown a Wuhan, epicentro della pandemia globale. 

Ed è proprio questo il concept del suo film, come d’altro canto esplica lo stesso titolo: è la narrazione pedissequa di cinque storie i cui protagonisti hanno vissuto, dal 23 gennaio 2020 sino a l’allentamento delle misure restrittive, tra strade disinfettate e scene di sanificazioni, di morte e pianti strazianti. Racconta la velocità di una nazione che ha cercato di far fronte al meglio all’esigenza, da un lato costruendo ospedali dall’oggi al domani, ma altresì dei controlli oltremodo amplificati sulla popolazione.

Per quanto, tuttavia, questo lungometraggio evidenzi in gran parte il funzionamento di una grande macchina organizzatrice, questo non è stato ben accolto e quindi escluso, non solo dalla 77esima Mostra del Cinema di Venezia ma anche da altri Festival Internazionali accodandosi a essi le piattaforme Netflix e Amazon Prime Video. Un giudizio meramente estetico e artistico, scorporato dal contenuto, affermano. Questa è la giustificazione, che tuttavia risulta difficile data l’importanza delle testimonianze dal vero, rubate, quindi intrise ancor più di veridicità e quotidianità, che lo rende un film clandestino. Come non ritenerlo all’altezza?

Ovviamente la sua non accettazione e censura è dovuta all occhio di riguardo che gli altri Paesi hanno nei confronti della Cina, grande potenza anche nel mercato cinematografico. Non vogliono “disturbarla” o per meglio dire “calpestarle i piedi” e sminuiscono parlando di polemiche sterili ed evitabili, come d’altro canto hanno fatto.

Ieri e oggi a confronto. Un esempio per epoca pur rimanendo consapevoli del fatto che in data odierna la censura stia divenendo una pratica di cui si fa uso e consumo in modo non ponderato. L’arte camminerà sempre a braccetto con la politica, ha imparato a conoscerla e talvolta a detestarla, ed è proprio per questo motivo che non si piegherà ai criteri di piacevolezza, gradevolezza senza traccia di fastidio e turbamento altrui, suggerite dal politicamente corretto.

L’arte è educatrice, rivelatrice, chiassosa e non ha voglia di tacere e di assecondare, perché è consapevole del fatto che, nel mondo fatato della correttezza politica, l’essere sempre più “sensibili” è significativamente correlato all’essere sempre più ignoranti. E quest’ultimo non è un aggettivo che si addice all’arte.