Attualità

Tortura in carcere, la mattanza della settimana Santa

“La mattanza della Settimana Santa”: questo il nome dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere sul caso di tortura avvenuto nella casa di reclusione “Francesco Uccella” il 6 aprile scorso. 


È stata soprannominata dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere “La mattanza della Settimana Santa” l’indagine che si riferisce all’evento a dir poco drammatico che si è verificato nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere lo scorso 6 aprile. 

Sono 144 gli agenti della polizia penitenziaria coinvolti che, secondo gli inquirenti, il 6 aprile scorso avrebbero dato avvio a un pestaggio senza precedenti a seguito della protesta iniziata e finita nella stessa giornata del 5 aprile. Proprio il 5 aprile, a seguito della notizia di diversi casi di positività al covid all’interno dell’istituto di pena, alcuni detenuti hanno iniziato “la battitura”, una sorta di protesta non violenta che consiste nel battere oggetti contro le porte delle celle. 

La mattina del 6 aprile c’è stato un notevole afflusso di persone in servizio nei vari reparti della polizia penitenziaria: si tratta di un’unità speciale istituita nel marzo del 2020 da parte del Provveditore Antonio Fullone. A Santa Maria Capua Vetere, però, l’unità speciale è andata ben oltre il proprio compito.

Le torture su cui stanno indagando gli inquirenti

Secondo gli inquirenti, gli agenti avrebbero prelevato i detenuti dalle sezioni di un reparto costringendoli a subire una serie di violenze fisiche e psicologiche. In particolare, i reclusi sarebbero stati costretti a inginocchiarsi, denudarsi e fare flessioni, oltre a ricevere calci, schiaffi, pugni, manganellate e testate da parte degli agenti che indossavano caschi antisommossa. Inoltre, secondo la Procura, un detenuto disabile sarebbe stato brutalmente picchiato insieme al suo accompagnatore.

Dopo quel blitz, gli agenti avrebbero anche minacciato i detenuti vittime del pestaggio invitandoli a non denunciare. «Mi raccomando di’ che sei caduto dalle scale»: queste le istruzioni riferite a uno dei reclusi, accompagnate anche da diversi biglietti minatori a chi aveva denunciato. 

L’inaccettabile violenza come scopo punitivo

Episodi come questo che hanno caratterizzato le rivolte portate avanti nei mesi di marzo e aprile da parte dei detenuti, ci pongono davanti a una riflessione sull’utilizzo della violenza a scopo repressivo-punitivo. Infatti, se da un lato la legge prevede l’utilizzo della forza nel momento esatto della rappresaglia, dall’altro lato l’utilizzo della violenza dopo aver “sedato” la rivolta diventa abuso di potere e nei casi più gravi tortura.  

È qui che viene alla luce l’idea che la collettività ha del carcere, persino delle persone che lavorano al suo interno, da cui ci si aspetta un minimo di conoscenza sullo scopo della pena e sulla funzione che il carcere dovrebbe assolvere. Non uno strumento che rieduchi concretamente la persona e non la privi del diritto alla dignità con cui entra anche nell’istituto di pena (al di là della gravità o meno del fatto commesso), ma come uno strumento repressivo attraverso cui esercitare violenza

Una condizione insostenibile nelle carceri italiane

A questo punto viene da chiedersi quale sia la differenza tra chi commette il reato e chi invece esercita la sua “morale” con metodi che esprimono una sorta di sentimento etico paragonabile al Tribunale della Santa Inquisizione spagnola. Considerazioni, queste, che vanno fatte, specie alla luce dell’interrogativo principale che la pandemia da covid-19 ci ha posto davanti: davvero pensiamo che il carcere così com’è possa andare avanti? E se sì, per quanto tempo? 

In un momento così delicato, in cui anche i contagi nelle carceri italiane sono in aumento, bisognerebbe preoccuparsi della tutela della salute collettiva senza escludere nessuno, soprattutto le persone private della libertà personale che non hanno la possibilità di capire realmente cosa succede all’esterno.


Avatar photo

Paolazzurra Polizzotto

Scrivere per me è stata una passione inaspettata, un dono tutto da scoprire. La mia missione è quella di dare una “voce” a chi crede di averla persa.