maxiprocesso

Maxiprocesso contro Cosa nostra: «le forze migliori» contro la mafia

Ventinove anni fa, a Palermo, dopo aver visto sfilare assassini e criminali nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, si concludeva il maxiprocesso: aveva luogo una grande vittoria della legalità.


Sono passati esattamente 29 anni dalla pronuncia della Cassazione che chiude il «maxiprocesso» a Cosa nostra e infligge in totale migliaia di anni di carcere a oltre 300 imputati. Non fu il primo grande processo, ma quello che riuscì a ottenere un’importante vittoria, sia delle istituzioni che della legalità, contro il potentato mafioso dopo decenni di stragi, morti ammazzati per strada e tanti, troppi “misteri” tra malaffare e politica siciliana

Le fasi del maxiprocesso a Cosa nostra si svolsero tra il 1986 e il 1987 e furono scandite dalle testimonianze di collaboratori di giustizia – tali «pentiti» come li definirono gli stessi imputati latitanti – come Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Salvatore Contorno e Antonino Calderone che aiutarono nella ricostruzione della fitta rete di organi e commissioni territoriali che organizzavano l’attività decisionale e criminale di Cosa nostra

I tempi che cambiano

Siamo negli anni Novanta: chi parla di mafia non è più preso per pazzo o mandato al manicomio criminale. Un destino di questo tipo, amaro, era capitato diversi anni prima a Leonardo Vitale, finito a processo nel 1977 per “associazione a delinquere” (allora non esisteva ancora il reato di «associazione mafiosa»). Vitale venne ucciso nel 1984 poco tempo dopo essere stato rimesso in libertà, freddato all’uscita della chiesa dei Cappuccini a Palermo. Riconosciuto come un collaboratore di giustizia solo successivamente alla sua morte, oggi se ne parla come «quel pazzo che diceva la verità» e come uno dei primi veri pentiti.

Non siamo neanche ai tempi dei “processi bolla” come quello di Bari, conclusosi l’11 giugno 1969, in cui il giudice Cesare Terranova dovette assistere all’assoluzione dei 64 imputati appartenenti o collegati alla cosca corleonese, quella da cui emergeranno importanti esponenti mafiosi come Luciano Liggio, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

Allora non solo c’erano pochi strumenti per compiere ricostruzioni complete tra le cosche, ma c’era la convinzione tra le stesse istituzioni giudicanti che la mafia non fosse un problema grave o profondamente organizzata nell’associazione a delinquere. Giudici come Terranova e giornalisti come Mario Francese, entrambi molto interessati agli interessi convergenti nel corleonese, avevano capito già molto e le assoluzioni di Bari non li scoraggiarono, ma per questo pagarono con la vita.

Il maxiprocesso ha potuto contare sulle rivelazioni dei pentiti, sulle estese indagini dei magistrati del Pool antimafia – anche questo con diversi morti alle spalle – intercettazioni e pedinamenti. Stavolta «la mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e una fine» come afferma Giovanni Falcone in un’intervista, uno dei protagonisti del Pool antimafia; in parole povere, Cosa nostra è un fenomeno strutturato, con le sue connessioni istituzionali, ma comunque un’organizzazione criminale come molte altre e, come tale, capace di essere sfidata, colpita e smontata «impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».

La strada verso il maxiprocesso

Le indagini portano a centinaia di arresti in un giorno solo: si tratta del blitz di San Michele del 29 settembre 1984, strategicamente anticipato di qualche giorno per il timore di avvertimenti trapelati all’esterno del Palazzo di Giustizia. Antonino Caponnetto, che guidava il Pool antimafia istituito da Rocco Chinnici, opera in mezzo a una pioggia di critiche della Magistratura, allora (per la maggior parte) bloccata in posizioni conservatrici che non prevedevano il “protagonismo” dei giudici nelle inchieste. Del ristretto gruppo di magistrati fanno parte oltre lui e Falcone, anche Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Da alcuni mesi Tommaso Buscetta aveva iniziato a collaborare con la giustizia; dopo una serie di schiaccianti riscontri, vennero emessi 366 mandati di cattura. Fu la più importante operazione antimafia del XX secolo, una doccia fredda per intere famiglie mafiose, prive dell’aiuto delle frequenti fughe di notizie che avrebbero distrutto il fondamentale “effetto sorpresa”. 

Tra i nomi illustri dei mafiosi arrestati figurano Vito Ciancimino, ex assessore ai lavori pubblici della giunta del sindaco palermitano Salvo Lima – quella passata alla storia come la protagonista del Sacco di Palermo – e i cugini Nino e Ignazio Salvo, imprenditori ed esponenti di spicco della Democrazia Cristiana siciliana. Riina, Bagarella e Provenzano però non saranno presenti al processo: sono latitanti.

Il processo nell’aula bunker

Il processo entra di fatto nella storia: è la prima volta che Cosa nostra subisce un processo come organizzazione unitaria strutturata verticisticamente. Il 10 febbraio del 1986 ha inizio il primo grado, e le varie fasi cruciali ebbero luogo attraverso il 1987 e il 1990; nelle celle dell’aula bunker sfilano assassini, uomini collusi, criminali senza scrupoli. Palermo vede finalmente concentrati nella verde aula bunker, appositamente costruita sotto l’«Hotel Ucciardone» – allora chiamato così per il trattamento dei detenuti – molti dei responsabili del sangue versato da magistrati, poliziotti, giornalisti e comuni cittadini nei decenni precedenti. 

Ripreso da diversi media, al maxiprocesso scorrono scene e personaggi grotteschi degni di certi film di mafia americani. Tra gli imputati c’è anche Luciano Liggio che si presenta in aula con un grosso sigaro cubano; c’è Pippo Calò detto “il cassiere della mafia” che impassibile, quasi irritato, ascolta il presidente della Corte d’Assise Alfonso Giordano ricordargli l’imputazione per 137 capi d’accusa, dei quali 64 omicidi; Michele Greco detto “il papa” ascolta le dichiarazioni con abito azzurro e Rolex d’oro al polso.

Alcuni botta e risposta tra pentiti e mafiosi hanno del ridicolo e del tragico allo stesso tempo, come quello tra Buscetta e Calò in cui «si mettono in mezzo questioni familiari» che «gli uomini d’onore» non dovrebbero citare nel dibattimento processuale; un’altra scena degna di nota è quella in cui Greco afferma convintamente che «la rovina dell’umanità sono certi film di violenza, film di pornografia – alludendo all’influenza cinematografica nella narrazione del suo coinvolgimento criminale – perché se Contorno [collaboratore di giustizia] avesse visto anziché “Il Padrino”, ad esempio, avesse visto “Mosè” non avrebbe calunniato l’avvocato Chiaracane [altro mafioso condannato al maxiprocesso]».

«Pace e serenità» prima della sentenza

Il maxiprocesso fu degno di questo nome: 349 udienze, 1820 ore di dibattimento, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive, 200 avvocati impegnati nel processo. Al termine del primo grado, i giudici ricevono un augurio molto particolare da parte di Michele Greco: «signor presidente, la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie sono parole di nostro Signore […] auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagnerà nel resto della vostra vita».

Il 16 dicembre 1987 il presidente Alfonso Giordano legge la sentenza nell’aula bunker dove siedono, oltre ai magistrati e ai giornalisti, i parenti delle vittime e il sindaco Leoluca Orlando in rappresentanza del Comune di Palermo che si è costituito parte civile contro la mafia: è il momento della verità.

La sentenza: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere; in particolare, ergastolo per Riina, Bagarella, Provenzano e Greco; 23 anni a Pippo Calò; 6 anni a Ignazio Salvo (il cugino era morto nel frattempo).

La delusione prima, la giustizia poi

Nel 1990 il processo d’appello si conclude con un consistente abbassamento delle condanne che erano state richieste dall’accusa. Questo, in qualche modo, aveva rispettato le attese di quanti credevano che anche per il maxiprocesso molti l’avrebbero fatta franca o ne sarebbero usciti con pochi anni di carcere. Il magistrato che deve sostenere l’accusa in Cassazione, però, si chiama Antonino Scopelliti: il magistrato calabrese rifiuterà – secondo le dichiarazioni del pentito Mariano Pulito – 5 miliardi di lire per modificare la sua requisitoria contro i mafiosi condannati. Nessuna corruzione per il numero uno dei sostituti procuratori generali italiani.

Si va avanti, ma fino alla morte: il 9 agosto del 1991 Scopelliti viene assassinato mentre è in auto, di rientro da una giornata al mare a Villa San Giovanni. Al maxiprocesso la partita per ottenere piena giustizia non è ancora finita.

Giovanni Falcone, che non vuole altre brutte sorprese durante il processo e, soprattutto, non vuole che tanto sangue versato non ottenga giustizia, fa monitorare le sentenze di mafia pronunciate dalla Cassazione. Dal monitoraggio emerge che queste sentenze vengono “casualmente” assegnate tutte alla stessa sezione. Il giudice palermitano allora suggerisce la turnazione delle sezioni chiamate a pronunciare le sentenze, e così viene fatto. Il 30 gennaio 1992 il giudice Arnaldo Valente ribalta nuovamente la sentenza nella direzione più severa e riconferma le 346 condanne, tra cui i 19 ergastoli.

È la fine di un processo storico, immerso in un contesto che ha del surreale: i protagonisti del processo tutti, chi nel bene e chi nel male, rimasti nella storia; le correnti contrastanti col Pool nella magistratura; lo stupore generale al momento della sentenza; la virata decisa nella direzione “durissima” richiesta da Falcone. Il maxiprocesso lascerà presto spazio alla stagione delle vendette e delle stragi per mano dei corleonesi; nel mezzo la trattativa (tra Stato e mafia) e le ombre sulla storia siciliana e italiana, mai solo bianca o solo nera.