Nella stanza numero 13 Giulio Regeni ha perso la vita e l’Italia un po’ di rispetto per se stessa

Anche se i misteri su cui fare luce sono ancora molti, l’opinione pubblica e il governo non possono più ignorare le rivelazioni sulle torture subite da Giulio Regeni.


Per parlare delle ultime novità sul caso Regeni non si può far altro che partire dai risultati dell’inchiesta della Procura di Roma. Nell’atto di chiusura dell’indagine si legge di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”. La procura di Roma sottolinea che Giulio è stato seviziato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”. Torture che hanno causato “numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico-dorsale e degli arti inferiori”. Nove giorni di sevizie ricostruite dall’instancabile lavoro degli inquirenti italiani nonostante i depistaggi e scarsissima collaborazione da parte dell’Egitto

I pm hanno emesso quattro avvisi di chiusura delle indagini, che precedono la richiesta di processo, per quattro indagati appartenenti ai servizi segreti egiziani: il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Quest’ultimo, oltre al sequestro di persona pluriaggravato contestato a tutti, è accusato di lesioni personali aggravate e dell’omicidio del giovane ricercatore. Il pm Sergio Colaiocco, sentito dalla commissione parlamentare su Regeni, ha sottolineato che ci sarebbero altri 13 soggetti tra gli indagati, ma la mancata risposta da parte delle autorità egiziane ha impedito di proseguire negli accertamenti. 

Decisive le cinque testimonianze raccolte in questi anni che raccontano ciò che è accaduto tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016 nel commissariato di Dokki e in una villa a Lazougly, nella stanza 13, dove pare vengano portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la Sicurezza Nazionale. Uno dei testimoni oculari racconta proprio di aver visto Giulio il 28 o 29 gennaio in quella stanza con ufficiali e agenti: «C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato. Dietro la schiena aveva dei segni, anche se sono passati anni ricordo quella scena. L’ho riconosciuto alcuni giorni dopo dalle foto sui giornali e ho capito che era lui». 

Dalla ricostruzione degli inquirenti emerge che gli agenti della National Security osservavano e controllavano direttamente e indirettamente il ricercatore friulano dall’autunno 2015. Tra le prove del coinvolgimento della National Security nelle mani della Procura i fotogrammi della telecamera nascosta con la quale il sindacalista Mohammed Abdallah, capo degli ambulanti del Cairo e contatto del giovane italiano per la sua ricerca, riprendeva le conversazioni con Giulio Regeni per i servizi segreti egiziani. 

Il video, girato la sera del 7 gennaio 2016, mostra l’incontro del sindacalista con Regeni. Nella conversazione si discute della domanda per una borsa di 10.000 sterline proveniente da una Fondazione britannica, Antipode, che avrebbe aiutato i venditori ambulanti. Giulio aveva condiviso l’informazione con Abdallah, il quale voleva intascarne una parte per usarli per scopi personali. A tale richiesta il ricercatore si mostra irremovibile: «Non posso darteli perché non sono i miei», «sono un accademico», «non posso usarli per ragioni private». Era già emerso che il rifiuto di Regeni a consegnare il denaro aveva spinto Abdallah a denunciarlo all’intelligence della Sicurezza Nazionale, dicendo di sospettare che fosse una spia.

Nel video il sindacalista, dopo essersi congedato da Regeni, chiama al telefono una persona chiedendo se deve spegnere la telecamera o tenerla accesa e di mandare qualcuno ad aiutarlo con l’apparecchio per paura di cancellare tutto il materiale registrato. Gli ultimi fotogrammi mostrano proprio un uomo, ripreso per pochi istanti dall’obiettivo, ancora senza un nome, che lo aiuta a spegnere il dispositivo. La data della denuncia confermata dalle autorità egiziane era il 7 gennaio 2016, ma il fatto che Abdallah avesse la microspia per incastrare Giulio già a quell’incontro dimostra che la denuncia sarebbe precedente a quella data. 

Quello stesso 7 gennaio Regeni incontrò pure la professoressa Abdelrahman, sua docente all’università di Cambridge, che seguiva il suo lavoro in Egitto, in trasferta al Cairo. La professoressa ha sostenuto che tra il settembre 2015 e il giorno del sequestro «non vi sono stati contatti significativi con Giulio» ma questo incontro la smentisce, sollevando diversi dubbi sulla sua condotta. 

Anche se i misteri su cui fare luce sono ancora molti, l’opinione pubblica e il governo non possono più fingere di non sapere cosa ha subito il ricercatore friulano in quei nove giorni di torture prima di essere ucciso. Eppure, nonostante non siano mai mancati gli altisonanti proclami della politica, in realtà nessuna presa di posizione forte arriva dalle istituzioni. A cercare di sollecitare una reazione solo la famiglia Regeni che continua a chiedere il ritiro dell’ambasciatore dall’Egitto.

Basta poco per capire che dietro una tale reticenza nel reagire con decisione all’assurda morte di un cittadino italiano all’estero c’è la volontà di preservare gli ingenti interessi economici italiani in Egitto. Le due fregate già vendute al governo del Cairo sono solo una piccola parte degli acquisti in armamenti che l’Egitto farà dall’Italia, per una partita complessiva da 10 miliardi di euro. Senza dimenticare che numerose sono le aziende italiane che fanno affari in Egitto, prima tra tutte l’Eni. 

Nelle stesse ore in cui venivano fuori le atrocità nei confronti di Regeni e veniva rinnovata la carcerazione di Patrick Zaki, la Francia stendeva tappeti rossi al Presidente Al Sisi in visita a Parigi e lo insigniva con la Legion D’Onore. I fasti e gli onori che Macron ha riservato all’ospite sono passati in sordina sui media francesi ma sono stati ampiamente rilanciati dal Cairo. Macron è stato chiaro e senza troppe ipocrisie ha detto che quella tra Egitto e Francia è una “partnership strategica” essenziale “alla stabilità regionale” e come tale “non sarà condizionata nei settori della difesa o dell’economia, dai disaccordi in materia di diritti umani”.

Insomma, in nome degli affari e della realpolitik si può chiudere un occhio o anche due sul rispetto dei diritti umani e si può fingere di non vedere la deriva autoritaria del governo Al Sisi. Secondo Human Rights Watch, ad oggi sono tra i 60mila e i 100mila  i prigionieri politici detenuti arbitrariamente nelle carceri egiziane e 50 le condanne a morte solo nel mese di ottobre. Nonostante l’unico gesto di rimostranza per questa medaglia appuntata al petto di Al Sisi sia arrivata dal mondo civile e da un giornalista italiano, Corrado Augias, che in segno di protesta restituirà la Legion D’Onore a lui conferita in passato, ogni indignazione da parte dell’Italia risulta decisamente ipocrita. 

La Francia è alleata dell’Egitto sul fronte libico e schierata insieme Grecia, Cipro, Emirati e Israele contro la Turchia anche nella disputa sulle zone di sfruttamento del gas. L’Italia invece ha perso ogni rilevanza nelle dinamiche del Mediterraneo e a quanto pare non pensa che mantenere la schiena dritta sulle vicende di Regeni e di Zaki sia anche propedeutico a riacquistare un minimo di credibilità internazionale. Una cosa è certa, il silenzio colpevole di fronte a ciò che è accaduto in quella stanza numero 13, non permetterà né all’Italia, né alla Francia, né a tutta l’Europa che si fa vanto di essere la culla dei diritti, di appuntarsi nessuna medaglia all’onore sul petto.


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