Morire un po’, giorno per giorno. Il racconto degli artisti sull’Aids

Il World Aids Day è il segno della continua campagna di sensibilizzazione per una malattia che non si riesce a debellare e su cui molti artisti hanno fatto aprire gli occhi.


Ogni anno dal 1988, l’1 dicembre ricorre il World Aids Day, giornata dedicata alla sensibilizzazione, prevenzione e responsabilizzazione su questa malattia al fine di combattere l’omonima e annosa epidemia mondiale. Ogni anno è importante dedicare spazio a questa ricorrenza per sottolineare la sua esistenza e – purtroppo –  la sua persistenza, “involontariamente” accantonata dalla pandemia di Covid-19.

Longeva, dunque, quanto distruttiva: dal 1981 il virus HIV ha ucciso circa 30 milioni di persone, anche perché non è stato prontamente identificato come fattore determinante dell’insorgere della sindrome da immunodeficienza acquisita conosciuta come Aids

È bene sottolineare come la medicina nel corso degli anni abbia fatto passi da gigante: purtroppo non è ancora stata trovata una vera e propria cura né un vaccino per prevenire o debellare la malattia, ma la scoperta di terapie farmacologiche antiretrovirali hanno allungato l’aspettativa di vita dei sieropositivi, dapprima considerati al momento della diagnosi come dei veri e propri condannati a morte.

Facente parte delle MST (Malattie Sessualmente Trasmissibili) – e trasmissibile anche per via ematica e materno-fetale – l’HIV e l’Aids, hanno sempre rappresentato uno stigma sociale, dovuto ai pregiudizi, all’ignoranza e alla mancanza di informazioni sulla malattia: emarginazione, giudizi morali per chi ne è affetto, pregiudizi che mettono in discussione priorità quali il lavoro, la famiglia, la vita, con conseguente esclusione dalla società. Tutto questo adesso come più di trent’anni fa.

Sicuramente allo stato attuale alcune cose sono cambiate sebbene da sempre l’uomo abbia avuto la prerogativa della ricerca di un capro espiatorio, qualcuno da additare e colpevolizzare quando le cose sembrano sfuggire al suo controllo. E molto spesso ad essere additate sono quelle “comunità” che la società ha sempre discriminato a priori, perché diverse e poste al margine: prostitute, tossicodipendenti, omosessuali. Insomma, “nicchie” di outsider dai comportamenti discutibili, “amorali” e “illeciti”.

È proprio quello sugli omosessuali il pregiudizio più duro a morire: solo un cambio generazionale può essere di aiuto, sradicando preconcetti ancestrali e assumendo un atteggiamento open minded in cui l’amore è amore, a prescindere da chi si ami. A oggi, e ne siamo tristemente consapevoli, gli omosessuali non sempre sono “accettati” (come se fosse compito di ognuno di noi decidere della vita altrui) e per questo etichettati come individui dagli atteggiamenti devianti e innaturali.

Molte sono le campagne di sensibilizzazione e prevenzione (perlopiù a opera del Ministero della salute) riguardo a un virus che colpisce indistintamente tutti coloro che mettono in atto comportamenti a rischio, senza alcuna distinzione di sorta: pubblicità in tv, alla radio con volti e voci di personaggi conosciuti; cartelloni pubblicitari, promocard informative e foto d’autore. Insomma, se qualcosa si è mosso e se vi è più conoscenza riguardo a ciò lo si deve anche a queste iniziative, sebbene sarebbe ancor di più efficace trattare queste tematiche nelle scuole attraverso l’educazione sessuale.

Anche gli artisti hanno cercato di far aprire gli occhi dinanzi a un mondo non conosciuto o volutamente ignorato, per farlo conoscere e per fare prevenzione. Altri ancora lo raccontano perché fanno parte di questo mondo: Keith Haring è uno di questi.

Omosessuale, artista e writer, Keith Haring ha scoperto di essere sieropositivo nel 1989: un colpo “tra capo e collo” ma non una sorpresa per lui, consapevole di aver vissuto «con promiscuità nella promiscua New York» negli anni culmine dell’Aids. Non se ne vergogna, fa coming out col mondo con un’intervista rilasciata a Rolling Stone. E soprattutto, la malattia non lo ferma: essa entra a far parte della sua arte. E questo non può che essere un bene dato il “raggio d’azione” delle sue opere. 

Ben impressi nel bagaglio culturale di ognuno di noi sono i suoi celebri graffiti – che spiccano tutt’oggi sui muri di alcune città come se fossero esposti in un museo a cielo aperto – raffiguranti i coloratissimi omini stilizzati con i quali, soprattutto durante gli ultimi anni della sua vita, illustrava il suo impegno nella lotta contro l’Aids.

A tal riguardo esplicativa è l’opera Ignorance = Fear, in cui sono rappresentate nella parte centrale tre consuete immagini stilizzate (suo marchio di fabbrica) che mimano frenetiche le ben note scimmiette conosciute semplicemente come “Non vedo, non sento, non parlo”: con questo messaggio, Haring sembra stigmatizzare un’attitudine comune in merito al problema, ovvero di ignorare ciò che purtroppo esiste e uccide, come lui stesso scrive nella striscia al di sotto dell’immagine centrale, «Silence = Death».

Attivo anche in campo sociale, ha dato vita alla Keith Haring Foundation, fondazione benefica ancora attiva –  anche dopo la prematura morte dell’artista – grazie alla quale è possibile sostenere i bambini e i malati di Aids; inoltre, è stato membro di ACT UP, un movimento politico per la lotta contro il virus.

Con i militanti di ACT UP collaborò anche l’artista e fotografo Oliviero Toscani, che fece conoscere questo movimento al mondo grazie alla cruda foto – in partnership con Benetton – raffigurante David Kirby, un giovane malato di Aids, attorniato dai familiari durante i suoi ultimi momenti di vita.

Una rappresentazione dal sapore amaro di una realtà sconosciuta o volutamente celata, una foto che ha voluto puntare i riflettori su una condizione che riguarda migliaia di persone, non solo vittime della malattia ma anche dell’emarginazione e del pregiudizio. Una foto, dunque, che riuscì a dare un grande scossone: la malattia esiste e uccide. Un’altra azione compiuta da ACT UP e da Toscani è stata quella di srotolare sull’obelisco di Place de la Concorde, a Parigi, un enorme preservativo rosa shocking, simbolo della prevenzione: era l’1 dicembre del 1993.

Parlando di fotografie, risulta impossibile non citare l’artista Nan Goldin e la sua serie fotografica, che consta di 700 opere, dal titolo The Ballad of Sexual Dependency, che si pone come un vero e proprio diario aperto: scene di vita quotidiane si stagliano dinanzi agli occhi del fruitore, inconsapevole voyeur

E riesce a immergersi nei contesti da lei immortalati, tra quelle persone che tutto sono tranne che modelli con trucco e parrucco: gente semplice, felice, stravagante, omosessuali, transessuali, tossicodipendenti malati di Aids – come la scrittrice e attrice Cookie Mueller e il marito Vittorio Scarpati, morti l’uno poco tempo dopo l’altra – che lei immortala nei loro momenti più intimi, senza tralasciare dettagli, accompagnandoli con la sua macchina fotografica, sino alla morte. Così lei ci pone dinanzi alla sua vita, alla sua realtà, condividendo il quotidiano con tutti noi immortalando ogni attimo, anche quello degno di non esser vissuto, senza fiocchetti né edulcorazioni: a fuoco o sfocate, che colgono l’attimo; nessuna posa, solo pura verità. Dalla vita alla morte.

E c’è chi davvero riesce a raccontarci con sottesa poesia il viaggio dell’uomo, la vita, e con la stessa poesia ne racconta l’epilogo. Un tempo lungo ma infinitamente breve, se vissuto a pieno e colmo d’amore, così come ha fatto l’artista Felix Gonzalez Torres. Anch’egli omosessuale e scopertosi sieropositivo, racconta nelle sue installazioni quell’amore forte, che dovrebbe condire il nostro percorso obbligato, per il suo compagno Ross, deceduto cinque anni prima di lui. Ross è in tutte le sue opere. Ross è le sue opere: una presenza-assenza costante, così come è sempre presente lei, la malattia che gliel’ha portato via. Ross è quella montagna di caramelle che hanno il suo peso al momento della morte, 80 kg, quelle stesse caramelle che gli spettatori sono invitati a prendere: un pezzetto di Ross va con ognuno di loro e al tempo stesso un pezzetto di Ross scompare, viene mangiato così come aveva fatto la malattia. Sino a quando non rimane più nulla.

“Untitled” (Portrait of Ross in L.A.) by Felix Gonzalez-Torres

Ross è quell’impronta della testa poggiata sul cuscino, è la forma del suo corpo sul materasso di quel letto matrimoniale dove si amavano e si sono detti addio, bianco e sfatto, immortalato nella foto Billboard of an Empty Bed. Ross è quell’orologio fermo accanto a Felix, vivo ma senza la sua metà, in Perfect Lovers: lui è l’orologio che scandisce il tempo, un tempo che non è più lo stesso se non condiviso ma che nonostante tutto continua ad andare avanti. Per questo tutto è doppio e tutto ci travolge nella loro intimità.

Nessun pregiudizio, nessuna critica: che l’1 dicembre sia sempre ricorrenza per sensibilizzare, prevenire e anche ricordare chi, a causa di questa malattia non c’è più.