Il futuro incerto dell’Ilva costa vite umane

A quasi due anni dalla condanna della CEDU, la tutela della salute dei cittadini di Taranto è ancora in pericolo.


L’Ilva di Taranto, uno degli stabilimenti più grandi d’Europa, ha da sempre diviso il mondo dell’opinione pubblica, tra chi intende mantenerlo aperto tutelando i posti di lavoro, e chi, invece, vorrebbe la sua chiusura per garantire la tutela del diritto alla salute e all’ambiente.

L’impianto siderurgico venne installato nel 1965 a Taranto, precisamente nel quartiere popolare di Tamburi, uno dei più grandi della città, e si occupa della produzione di acciaio, con una produzione stimata dalle 6 alle 10 milioni di tonnellate all’anno. Da sempre è stato accusato di essere non solo la “causa” dell’inquinamento della città, ma anche di malattie tumorali di molti cittadini tarantini, specialmente bambini.

L’emergere di malattie e gli alti livelli di inquinamento trovano un filo conduttore nella lavorazione dell’acciaio, e in particolare nella lavorazione di materiali altamente tossici. L’acciaio viene prodotto utilizzando principalmente tre materie prime: il minerale di ferro, il carbone e il calcare. Il minerale di ferro e il carbone vengono importati dal Brasile e, trasportati nel porto di Taranto, vengono poi depositati in grandi parchi minerali; l’esposizione all’aria aperta favorisce la diffusione delle polveri sottili che a causa del vento si propagano su tutta Taranto. 

Secondo l’International Federation for Human Rights (FIDH) che ha svolto gli studi dell’impatto ambientale dell’Ilva sulla città di Taranto, questo impianto all’interno di un centro abitato ha bisogno di una gestione più responsabile e ottimale per la tutela dell’ambiente, perché il minerale e il carbone vengono depositati in grandi parchi minerali lasciati a cielo aperto e quando soffia il maestrale provoca l’innalzamento delle polveri di ferro che si disperdono nell’aria inquinando l’ambiente circostante. I dati relativi all’inquinamento dell’Ilva sono contenuti in diversi documenti ufficiali. Le più recenti sono due perizie, una chimica e una epidemiologica, commissionate nel 2012 dalla Procura di Taranto.

Secondo la perizia chimica l’Ilva ha emesso, solo nel 2010, circa 4mila tonnellate di polveri, 11mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa, 338,5 chili di IPA , 14,9 grammi di benzo diossine e PCDD/F. Queste sostanze, oltre ai problemi che hanno provocato alla salute dei cittadini, sono state la causa della contaminazione dei terreni e quindi dei prodotti agricoli che finiscono nelle tavole della popolazione tarantina.

La salute dei cittadini di Taranto fortemente compromessa dall’inalazione delle polveri sottili emesse dall’impianto siderurgico è stata oggetto di studio da parte dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), con lo studio Sentieri. Da questo studio, che considera il periodo che va dal 2006 al 2013, è emersa la totale compromissione della salute della popolazione residente nei quartieri di Tamburi, Borgo, Paolo VI e nel comune di Statte. I dati mostrano tassi di mortalità e morbosità molto elevati, a causa dello sviluppo di malattie provocate dalle pessime condizioni ambientali presenti nel sito.

È aumentato anche il rischio di decesso nei casi di patologie dell’apparato respiratorio e, in particolare, nei casi di tumore ai polmoni. Nell’agosto del 2016 sono stati resi pubblici i risultati dello studio di coorte, effettuata sulle 321.356 persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, tra il primo gennaio 1998 e il 31 dicembre 2010, riguardante gli effetti delle esposizioni ambientali e occupazionali sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. L’aumento di mortalità nei casi di tumori, malattie cardiovascolari e renali è risultato conseguente all’esposizione a PM10 e SO2, sostanze altamente irritanti e nocive per la salute.

Si è osservata una associazione con il ricorso alle cure ospedaliere per molte delle patologie analizzate, un aumento delle malattie neurologiche, cardiache, infezioni respiratorie, malattie dell’apparato digerente e malattie renali. Le gravidanze con esito abortivo sono risultate anch’esse conseguenti all’esposizione a SO2 delle donne residenti nelle zone limitrofe. Tra i bambini di età 0-14 anni sono state osservate importanti complicazioni soprattutto per le patologie respiratorie. Ulteriori analisi avviate dall’ISS sottolineano come i bambini che vivono a Taranto abbiano una probabilità di ammalarsi di tumore del 54 per cento più alta degli uomini (30 per cento) e delle donne (20 per cento).

La questione Ilva è stata resa più intricata dalle vicende giudiziarie che si sono susseguite negli anni. 

Nel 2012 è stato varato dal Governo il d. l. 207 del 3 dicembre recante “Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale”, che ha permesso la prosecuzione dell’attività siderurgica dello stabilimento senza prendere in seria considerazione la tutela dei cittadini di Taranto.

In merito a questo decreto la Corte Costituzionale, nel 2013, ha rilevato delle illegittimità costituzionali, ravvisando la necessità di “un ragionevole bilanciamento tra il diritto alla tutela della salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto alla tutela a mantenere un ambiente salubre, e la tutela del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), mantenendo i livelli occupazionali” .

Nel 2015 il Governo emana un ulteriore decreto, divenuto famoso come “Salva Ilva”, a fronte di un piano di risanamento dello stabilimento, per la prosecuzione dell’attività, disattendendo del tutto la decisione del Pubblico Ministero, che aveva disposto il sequestro preventivo d’urgenza dell’altoforno per non aver garantito la sicurezza alla vita dei lavoratori. La Corte Costituzionale, su ricorso del Pubblico Ministero, ha ravvisato l’illegittimità costituzionale del decreto “Salva Ilva”, riaffermando che manca del tutto un bilanciamento tra i diritti costituzionalmente garantiti dalla Costituzione, e che “il Legislatore ha privilegiato l’interesse alla prosecuzione dell’attività lavorativa, trascurando la  salute e la vita stessa dei cittadini”.

Il 24 gennaio 2019, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha emesso una decisione che potrebbe definirsi “storica” sotto molti punti di vista. La Dott.ssa Annalisa Spera, nel 2013, in qualità di Presidente del Comitato Legamjonici, presenta ricorso alla Cedu, lamentando la violazione degli artt. 2 (diritto alla vita), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, denunciando l’Italia per non aver protetto la salute dei cittadini.

La Cedu accogliendo il ricorso afferma che l’Italia ha violato i suddetti articoli, e che le vittime abbiano subito un grave pregiudizio alla salute, poiché il Governo italiano ha autorizzato la prosecuzione dell’attività industriale nonostante le diverse decisioni giudiziali, e diverse perizie poste in essere dalla Regione Puglia, che ne evidenziavano la pericolosità per ambiente e salute. La Corte ha invitato il Governo a porre in atto tutte le misure necessarie ad assicurare la protezione dell’ambiente e della salute dei cittadini di Taranto. 

Alla luce di quanto emerso dalle vicende rocambolesche che hanno riguardato l’Ilva di Taranto, negli ultimi giorni si è palesato un accordo tra lo Stato e la società franco-indiana, per gestire al meglio la questione ambientale e occupazionale. Il contenuto di questo accordo prevede l’ingresso dello Stato al 50 per cento per la gestione dell’Ilva, con un investimento che si aggira intorno ai 480-500 mln di euro, con l’obiettivo di produrre un quantitativo di 8 milioni di tonnellate di acciaio annuo, e garantendo l’occupazione e la cassa integrazione degli operai dello stabilimento.

Il problema che molti sindacati e ambientalisti lamentano è che dal tavolo delle trattative non è stato messo in discussione il progetto di decarbonizzazione dell’impianto, con la messa in opera degli impianti ecosostenibili che ci si aspettava.

L’accordo, dunque, si presenta come una semplice formalizzazione per evitare tensioni sociali per non far fuggire dall’Italia Arcelor-Mittal. A ben vedere, questo investimento si presenterà probabilmente come un ennesimo fallimento da parte dello Stato nel tentativo di salvare uno stabilimento privo di qualsiasi prospettiva di reddito, quando ormai la Cina ha conquistato una posizione di supremazia nel mercato dell’acciaio. Tra l’altro da quanto emerge da questo patto, neanche la messa a norma degli impianti potrà risolvere la questione ambientale. 

Il sindaco di Taranto ha criticato aspramente questo accordo affermando che «l’ex Ilva è un paradigma per tutta l’Italia. Non ci sarà un futuro roseo per un Paese che non trova una soluzione sostenibile e rispettosa dei diritti umani e costituzionali per Taranto. E le ragioni di produzione nazionale non possono scavalcare le ragioni di salute e ambiente».

Ancora una volta sembra che lo Stato non stia dando il giusto valore che merita a una questione che interessa non soltanto il piano economico e produttivo della nazione, e quindi il futuro degli operai dell’Ilva, ma soprattutto prende sottogamba la vita stessa dei cittadini e la tutela dell’ambiente a Taranto.