La conferenza di fine anno di Putin

Con il 2020 che giunge finalmente al termine arriva la consueta conferenza di fine anno di Putin. Che anno è stato per il Presidente russo?


Dopo quanto tempo un costume diventa tradizione? Giovedì 17 dicembre si è tenuta la conferenza di fine anno di Putin, la numero XVI. Sedici anni che per alcuni di noi costituiscono più del 50% della propria esistenza sul pianeta terra. In collegamento dalla residenza di Novo-Ogarevo, Putin ha discusso con i giornalisti, con Peskov a fare l’ospite al World Trade Center di Mosca. 

Collegamenti da Vladivostok, Novosibirsk, Ekaterinenburg, Nizhny Novgorod, San Pietroburgo, Rostov sul Don. Un call center per le domande del pubblico. Quattro ore e mezza di domande e risposte. Una maratona. Una messinscena di scambi pattuiti? Non solo. Ci sono molte verità, anche nella prevedibilità di un cerimoniale. La prima verità è che il 2020 ci ha tolto il Natale coi parenti, ma non la conferenza di fine anno di Putin.  

Una domanda innocente, come quella di un bambino, posta dalla giornalista di Magadan Lyudmila Scerbakova, apre le danze. Sorridente, Lyudmila, chiede: “è stato un anno cattivo, o dopo tutto c’è stato qualcosa di buono?”. Quante polemiche, quante domande al vetriolo sarebbero potute pervenire da quel dalny vostok, quel lontano oriente, tanto in subbuglio, tanto agitato, scosso da proteste e flagellato dalla pandemia, durante questo 2020. Ma la semplicità della domanda non risparmiava l’imbarazzo di rispondere a tutto questo, per il Presidente. Solo, lasciava elegantemente a lui la scelta, se farlo o no. 

E qui la seconda verità, sull’animo russo, la dusha, che parla in silenzio e dice tutto ciò che deve. Compostamente trascendente, misteriosa, di un’intelligenza mai ostentata. Anche nella migliore tradizione putiniana di dribbling del quesito sgradito, la risposta alla domanda della Scerbakova è risultata “evitante”. “Che vuol dire brutto? Il tempo può essere bello o brutto, così come un’annata. Ha i suoi alti e bassi”. A dir poco un eufemismo, per descrivere il 2020 russo, anno di crisi economica e pandemia, proteste in casa e appena fuori casa e guerre inattese.

Voci sulle cattive condizioni di salute del Presidente si sono susseguite in questo 2020 che, francamente, ci ha abituato a non stupirci più di nulla. I “Putin-watchers” avranno di certo ben compreso come una notizia di questo genere possa danneggiare un leader come Putin, molta della cui allure è costituita dall’immagine che di sé emana, adeguatamente coadiuvato da un entourage di Da-men e un esercito di meme nei quali cavalca orsi recando con sé un’enorme siringa piena di vaccino Sputnik per tutti i popoli della terra. 

E poi, se tali voci fossero vere, l’intero 2020 russo potrebbe essere visto sotto l’inconsueta luce del tentativo da parte del Presidente di prepararsi a una successione, in un rovesciamento speculare del successo nei cambiamenti costituzionali e nell’annullamento del conteggio dei suoi termini di mandato già serviti come Presidente. 

L’incidente Navalny, il rinnovato pressing straniero sulla vicenda che vede l’ennesimo oppositore del Kremlino avvelenato, è una nocciolina di fronte ai problemi che Putin sta affrontando al momento. L’economia in disgrazia, la gente impoverita, il virus che imperversa, il vaccino Sputnik che non convince, le proteste a est, la Bielorussia, la guerra in Nagorno-Karabakh, la nuova presidenza americana, la guerra del petrolio di inizio anno, queste le problematiche che preoccupano il Kremlino.

Il complotto da Guerra Fredda dell’avvelenamento di Navalny, pasionario anticorruzione, è tutto sommato un campo in cui Putin si muove a suo agio. Nonostante gli scivoloni dei suoi Servizi, che spesso in questi anni hanno fallito nel mantenere totale segretezza rispetto ai propri affari meno puliti, il diniego di ogni responsabilità basta a Putin per concludere – dal suo punto di vista – la vicenda. Navalny è stato avvelenato, è stato avvelenato con Novichok, questo è un fatto. É stato ricoverato al Charite di Berlino, ha fatto un selfie col volto emaciato, tutti si sono indignati, e poi sono tornati a comprare il lievito nei supermercati. 

Passa qualche mese. Adesso un’inchiesta giornalistica dice che un tipo dei Servizi russi seguiva Navalny da anni. Beh. Tanti articoli per un paio di giorni, poi basta. “Se avessimo voluto avvelenarlo, avremmo finito il lavoro”, “ma non era necessario”. Tanto rumore per nulla, dunque. Un grattacapo di secondaria importanza per l’ex KGB, che fra l’altro gli consente non solo l’esercizio pieno della propria retorica sardonica e “bomberista”, ma anche di sottolineare la poca incidenza del “paziente di Berlino” nel panorama politico interno alla Federazione. 

Comunque, Putin non possiede neppure uno smartphone, ci tiene a dire Peskov. Così. Ce lo dice perché vuole accrescere l’immagine di Putin come leader mondiale del luddismo, o perché le investigazioni sul caso Navalny sono basate sul tracking delle geo-localizzazioni dei telefonini? Il 2020 si è portato via anche il grande John Le Carré ma abbiamo ancora dei leader viventi che scrivano pagine da romanzo di spionaggio da brivido. Solo che in questo caso il prezzo dell’intrattenimento è più alto che quello di un libro.