Satira: né giusta, né sbagliata, ma “solo” lecita

Le vignette satiriche, e quelle dissacranti di Charlie Hebdo, fanno riflettere sul modo di fare satira, che non può definirsi giusto, o sbagliato, ma più semplicemente lecito.


Nella satira tutto è permesso, trasponendo un famoso detto che parla di amore e guerra: sembrerebbe essere una terra di nessuno, un campo libero da ogni regola, dove si spara a zero letteralmente su qualsiasi cosa, senza all’apparenza un minimo di sensibilità o empatia. Nella satira tutto è permesso, lo ripetiamo come se ce ne dovessimo convincere, ogni volta che sentiamo, o vediamo, un programma, o una vignetta, che ci fa storcere il naso e ci fa fare tutto, meno che sorridere. Nella satira tutto sembra permesso: in realtà, di fronte a certe immagini il nostro cervello diventa un pendolo che oscilla inesorabilmente tra “la Costituzione tutela la libertà di espressione”, da un lato, e “però questa volta hanno esagerato”, dall’altro; tra il senso di colpa che ci attanaglia quando sorridiamo, sperando che nessuno ci abbia visto, e lo sgomento nel sapere che esiste qualcuno capace di scherzare su certi avvenimenti.

E in effetti il confine tra i due opposti stati d’animo è molto labile, si direbbe quasi impercettibile: quand’è che la satira si trasforma in offesa, e quando, invece, si adagia nelle categorie rassicuranti del “divertente”, “pungente”, finendo per essere sostanzialmente innocua e serenamente accettata dalla comunità?

Una satira che non turba, che non fa arrabbiare, che non disprezza, potrebbe definirsi tale? In fondo, è proprio nella sua stessa natura: la satira deve colpire, deve essere disturbante e fastidiosa, deve provocare. In caso contrario, sarebbe solo l’ennesimo esempio di umorismo scialbo, un “vorrei ma non posso” ingabbiato nel politically correct.

Lo sapevano bene i latini, che la satira l’hanno inventata: «Satura quidem tota nostra est» (“La satira è tutta nostra”) scrive Quintiliano nel I secolo d. C. nella sua Institutio oratoria, affermando orgogliosamente la paternità di un genere che nulla aveva a che vedere con quelli importati dalla Grecia. Satira come varietà, abbondanza, mescolanza: prende il suo nome da “satura lanx”, un piatto di primizie di frutta, spesso offerto agli dei, che a sua volta ha la stessa desinenza dell’avverbio satis, abbastanza.

E l’abbondanza stava proprio negli argomenti descritti, ma soprattutto nelle modalità di trattazione. Sarà Lucilio a caricarla di aggressività e di polemica; dalla politica alla religione, nulla viene risparmiato: la società dai costumi depravati, le divinità derise, gli eroi dissacrati e deboli, i politici ipocriti e corrotti che si fingono persone oneste, fino ai gusti sessuali di interi popoli (fra tutti, l’effeminatezza proveniente dalla Grecia, che pure non era stata estranea a questo irriverente genere già col commediografo Aristofane).

La satira sconcerta, disturba, sconvolge; e continua a farlo, inesorabilmente, da secoli. Mettendo un attimo da parte l’antica Roma e l’antica Grecia, discutendo di satira il pensiero odierno non può che correre a Charlie Hebdo, la testata francese balzata alle cronache in quel 7 gennaio 2015, quando due attentatori affiliati di Al-Qaeda, i fratelli Kouachi, irruppero negli uffici del giornale, uccidendo dodici persone e ferendone altre undici, con la motivazione di “difendere Maometto dalle caricature e dalle vignette offensive sull’Islam” che la testata era solita pubblicare. Il tragico evento non ha fermato il lavoro del giornale, caustico e irriverente, che ha continuato sulla medesima linea e non ha modificato di una virgola il proprio modo di fare satira.

Nessuno viene escluso da questo approccio fastidiosamente democratico, in cui l’unica regola vigente è che non ci sono regole, e che nessuno passa indenne dalle penne e dalle matite di Charlie. Si fa satira letteralmente su qualunque cosa: sul Papa (che non si dica che viene attaccato solo l’Islam), sulle calamità naturali, sulle tragedie dei naufragi dei migranti, su crisi economiche che mettono in ginocchio un Paese e che fanno suicidare centinaia di lavoratori, su Capi di Stato derisi e ridicolizzati (da ultimo, la vignetta del mese scorso raffigurante un Erdogan vizioso che alza la veste di una donna musulmana).

Talmente alta è l’indignazione dinanzi a tutto questo che più di una volta l’opinione pubblica e le istituzioni francesi si sono dovute discostare dai messaggi lanciati da questi disegni, precisando che “non rispecchiano il pensiero della Francia” e porgendo delle sentite scuse. È quello che è successo in occasione del terremoto di Amatrice nell’agosto del 2016, quando Charlie Hebdo ha pubblicato una vignetta raffigurante i morti ammassati sotto le macerie, definendoli “lasagne”, alludendo alla loro “stratificazione”. Per tentare di placare gli animi, ma soprattutto per inquadrare il contesto in cui nascono le opere incriminate, è stato creato persino un sito web, Understanding Charlie Hebdo, che concretamente va ad analizzare le vignette fornendo diversi livelli di lettura e interpretazione.

Tutte scuse, si potrebbe pensare; sporche giustificazioni per discolpare un modo becero, blasfemo, ignobile, immorale di fare satira, che macchia il nobile concetto di libertà di stampa e di espressione, e che distoglie l’attenzione da quella che è la realtà, ovvero che ci sono degli argomenti su cui, effettivamente, non si deve scherzare.

Ma Charlie Hebdo non è l’unico esempio di satira feroce e spietata che l’occidente conosce. Basta aprire Netflix per trovare degli spettacoli di stand up comedy, che farebbero rabbrividire qualsiasi ascoltare italiano medio (e non solo loro). Jimmy Carr, Jim Jefferies, David Cross sono soltanto alcuni dei comici che in giro per gli Stati Uniti non risparmiano niente e nessuno: omosessuali, donne, afroamericani, politica, pedofilia, religione, perfino l’11 settembre viene deriso, dinanzi a un pubblico che applaude e ride di gusto.

Che fare, dunque? Senza nulla togliere alla sensibilità personale di ognuno, che può provare disgusto e sgomento, e inorridire dinanzi a certe frasi o espressioni, ostinarsi ancora nella dicotomia satira corretta/scorretta, pulita/sporca, leggera/pesante è da ritenersi tanto sterile, quanto controproducente.

La verità è che non c’è una risposta. La satira è una soltanto, senza aggettivi: non è giusta, o sbagliata; non è normale (intesa come “nella norma”), o esagerata; non è accettabile, o offensiva, non è bianca, o nera. È satira, punto. E quando accetteremo che non c’è risposta a questa domanda, potremo finalmente concludere che essa è semplicemente, e banalmente, “lecita”. Solo allora, forse, non ci sentiremo più colpiti, mortificati, offesi: e sarà in quel preciso istante, che la satira smetterà di esistere. Ma finché ci sarà qualcuno, o qualcosa, da offendere o beffeggiare, quel momento potrà ritenersi molto (molto) lontano.

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