Recovery Fund, il veto di Polonia e Ungheria al nuovo compromesso

Tra il 5 e il 10 novembre scorsi, è stato raggiunto un compromesso sui punti critici del Recovery Fund, sul quale la Polonia e l’Ungheria hanno posto il veto.


Il difficile negoziato sul Recovery Fund costituisce, oramai da mesi, il nucleo centrale del dibattito istituzionale comunitario per la ripresa e la resilienza delle economie degli Stati membri dell’Unione Europea (UE). Il piano – predisposto dai leader UE durante la riunione straordinaria del 17-21 luglio scorsi – ha messo in luce alcune delle criticità che hanno impedito (e continuano ad impedire) il pieno sviluppo del processo di integrazione in ambito economico-finanziario, mostrando la mancanza di appositi strumenti che consentano una risposta efficace ai periodi di crisi nella tutela della sostenibilità dei debiti pubblici nazionali e nella protezione degli interessi dei cittadini europei.

Il dialogo trilaterale tra Commissione europea, Europarlamento e Consiglio – guidato dalla Presidenza tedesca – si è incentrato sulla necessità di prevedere un meccanismo che subordini l’erogazione dei fondi previsti dal Recovery Fund al rispetto dello Stato di diritto, sull’esigenza di prevedere l’introduzione di nuove risorse proprie dell’UE e sui tagli che sono stati apportati al Quadro Finanziario Pluriennale (QFP o bilancio a lungo termine) 2021-2027 dal compromesso raggiunto dagli Stati membri durante il Consiglio europeo straordinario del luglio scorso.

Dopo diversi turni negoziali, in cui l’Europarlamento ha più volte ribadito l’intenzione di fornire la propria approvazione al QFP – da cui dipende l’attuazione del Recovery Fund – solo in caso di raggiungimento di un accordo soddisfacente sotto il profilo delle criticità sopra elencate, il dibattito sul piano per la ripresa e la resilienza sembra esser giunto ad un punto di svolta. Nello specifico, il 5 novembre scorso, i negoziatori del Parlamento europeo e la Presidenza del Consiglio hanno definito un meccanismo che permetterebbe di sospendere i pagamenti dal bilancio a lungo termine dell’UE ad uno Stato membro, in caso di violazione dello Stato di diritto. In tale prospettiva, già nel 2018, la Commissione europea aveva proposto l’adozione di un Regolamento che avesse, quale obiettivo, la tutela degli interessi finanziari dell’Unione, considerato che tanto la corruzione quanto la presenza di tribunali nazionali non indipendenti rappresentassero – e rappresentano – un rischio per l’adeguato utilizzo del fondi UE destinati ad un Paese richiedente.

Il nuovo meccanismo – che richiede una decisione sulla sospensione adottata dal Consiglio a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione – dovrebbe prevedere un regime di condizionalità a garanzia del QFP volto a coprire tutte le risorse dell’Unione, comprese quelle previste dal Next Generation EU, nel caso in cui la violazione dello Stato di diritto in uno Stato membro «comprometta o rischi seriamente di compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio dell’UE o la tutela degli interessi finanziari dell’UE in modo sufficientemente diretto». Nonostante questo strumento costituisca una tappa storica nell’ambito del processo di integrazione europea, ponendosi a protezione di quei valori che rappresentano il nucleo essenziale del progetto comunitario, la sua evoluzione legislativa rischia di subire una battuta d’arresto, dovuta al veto posto dalla Polonia e dall’Ungheria.

Tali Stati membri, guidati rispettivamente da Mateusz Morawiecki e da Viktor Orbán, sono stati più volte richiamati, in passato, dalla Commissione europea, in considerazione delle gravi lesioni all’indipendenza e all’imparzialità della giustizia. Il veto nei confronti della condizionalità prevista dal nuovo meccanismo sullo Stato di diritto, lascia degli spazi di incertezza in merito alla ragione che abbia condotto tali Paesi UE ad adottare una simile posizione.

Nello specifico, per quanto si possa rintracciare l’intenzione di proteggere la sovranità nazionale, Polonia ed Ungheria rientrano tra i principali beneficiari delle risorse comunitarie: se, da un lato, infatti, i fondi strutturali dell’UE costituiscono una fonte essenziale per le rispettive economie, dall’altro questi hanno consentito la progressiva attrazione degli investimenti esteri, da cui le stesse dipendono. In aggiunta, in caso di approvazione del bilancio a lungo termine dell’UE e conseguente attuazione del Recovery Fund, alla Polonia e all’Ungheria verrebbero erogati rispettivamente 170 e 54,3 miliardi di euro. Alla luce di tali dati, non si comprende quale sia la vera natura dell’atteggiamento adottato dai due Stati membri, che rischia di compromettere la già tardiva operatività del Piano per la ripresa e la resilienza.

Per quanto concerne gli ulteriori punti cruciali del negoziato sul Recovery Fund, ossia il sistema delle risorse proprie dell’UE e i tagli al QFP 2021-2027, la Presidenza tedesca del Consiglio e i negoziatori del Parlamento europeo hanno raggiunto, lo scorso 10 novembre, un accordo politico sul futuro dei finanziamenti dell’Unione. Nel dettaglio, l’Europarlamento ha ottenuto 16 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi al pacchetto previsto dai leader degli Stati membri durante la riunione straordinaria dello scorso luglio e che verranno impiegati nel rafforzamento dei programmi faro dell’UE, nella protezione dei cittadini europei contro l’attuale sfida sanitaria del Coronavirus (SARS-CoV-2 o COVID-19), nella tutela dei valori comunitari e nell’aumento della flessibilità di bilancio in vista delle future crisi.

In aggiunta, attraverso l’accordo, è stata elaborata una tabella di marcia per l’introduzione di nuove risorse proprie nei prossimi sette anni. Nel dettaglio, vengono annoverate: la Plastic Tax, un contributo nazionale basato su rifiuti da imballaggi di plastica non riciclati (1 gennaio 2021); la Carbon Tax, basata sull’Emission Trading System (ETS), o sistema di scambio delle emissioni (1 gennaio 2023); la Digital Tax, volta a garantire un’equa tassazione sull’economia digitale (1 gennaio 2024); la tassazione delle transazioni finanziarie, in modo da assicurare che anche tale settore fornisca il giusto contributo attraverso il pagamento delle tasse (1 gennaio 2026); e, infine, un contributo finanziario legato al settore delle imprese o una nuova base imponibile consolidata comune per le imposte sulle società (1 gennaio 2026). Si tratta di nuove fonti di entrata che consentirebbero di provvedere ai costi a medio e lungo termine derivanti dal rimborso del debito risultante dal Recovery Fund, così da preservare i programmi di investimento già esistenti ed evitare ulteriori contributi da parte degli Stati membri.

In conclusione, il raggiungimento di un compromesso sui nodi cruciali che caratterizzano il Piano per la ripresa e la resilienza rappresenta, sicuramente, una svolta fondamentale in vista dell’operatività dei relativi fondi. Nonostante gli accordi politici descritti necessitino ancora di un’approvazione in sede di Consiglio e di Parlamento europeo, le logiche di protezione della sovranità nazionale, frutto di un approccio intergovernativo, costituiscono il vero limite allo sviluppo del processo di integrazione europea e all’attivazione dell’erogazione delle risorse necessarie per contrastare gli effetti negativi della pandemia. Come, in passato, per la Grande Recessione e la susseguente crisi dei debiti sovrani, anche l’emergenza sanitaria attuale offre agli Stati membri l’opportunità di progredire in quella cooperazione finanziaria da considerarsi fondamentale in vista dell’interdipendenza delle rispettive economie e della tutela degli interessi dei cittadini europei. 


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