Shell nel Delta del Niger: un killer silenzioso nell’Ogoniland

L’estrazione del greggio operata dalla Shell nel Delta del Niger sta causando forti danni all’ambiente, mettendo a serio rischio le popolazioni che ci vivono.


Una delle sensazioni più ricorrenti degli ultimi mesi è quella di vivere in un mondo quasi fermo, in cui le uniche notizie degne di essere riportate riguardano numeri, contagi e tamponi. Sarebbe il caso di dire che oltre questa emergenza c’è un mondo che non si è fermato con il sopraggiungere di una pandemia; un mondo in cui nemmeno i conflitti, in alcuni casi, hanno subito battute d’arresto e che anzi sono stati rinvigoriti da una crisi che ha messo in ginocchio la tutela dei diritti umani basilari, specialmente nelle aree più colpite, generalmente prive di mezzi per proteggersi.

Tra questi diritti, di certo uno dei più colpiti è il diritto all’ambiente, di cui ancora ampiamente si dibatte e risulta difficile trovarne un’interpretazione univoca. Nonostante i pochi e limitati strumenti giuridici per farlo valere, anche a livello internazionale è riconosciuto il diritto a un ambiente salubre che permetta all’uomo di vivere in condizioni di vita soddisfacenti e dignitose, perseguendo il proprio benessere. 

Tale riconoscimento – operato dall’ONU nel 1972 durante la Conferenza di Stoccolma con l’adozione della Dichiarazione sull’ambiente umano – ha permesso che venisse inserita la componente ambientale nella protezione internazionale dei diritti umani. Questa componente ha acquisito maggiore importanza alla luce dei recenti disastri ecologici causati dall’uomo e dello sciopero globale indetto nel 2018, capitanato dalla studentessa e attivista svedese Greta Thunberg.

Allo stato attuale, tale diritto non è ugualmente valido per tutti. In particolare, non lo è per le diverse popolazioni che abitano l’Ogoniland: una regione del delta del Niger, nel Rivers State. Come Davide ebbe l’ardire di accettare la sfida del gigante filisteo Golia, così il popolo Ogoni si è trovato costretto a difendersi, con poche armi a disposizione, dal colosso olandese della Royal Dutch Shell, uno dei quattro principali attori privati mondiali nel comparto del petrolio e del gas naturale, con un fatturato annuo di 344 miliardi di dollari.

La Shell, che oggi è presente sul territorio nigeriano accanto alla Chevron-Texaco, Eni, Total e ad alcune joint venture nigeriane, ha dato il via all’estrazione petrolifera nel delta del Niger a partire dal 1956.

A causa del tessuto normativo lasco, della mancanza di controlli e della fondamentale importanza che rivestono le esportazioni di petrolio greggio dalla Nigeria verso il resto del mondo per il prodotto interno lordo della nazione, la compagnia olandese ha sfruttato l’occasione per curare i propri interessi sul territorio senza che vi fossero i mezzi per porre un freno alle sue ambizioni.

Ciò per cui protestano le popolazioni del delta del Niger oggi, è proprio la mancanza di un ambiente salubre in cui vivere, la fine di un ecosistema ricco come quello del territorio, accanto ai più gravi crimini di detenzione arbitraria e omicidio ai danni di attivisti autoctoni – a partire dall’inizio degli anni novanta – con il solo scopo di mettere a tacere le loro legittime rivendicazioni.

La regione dell’Ogoniland è stata irreparabilmente distrutta dal punto di vista ecologico: gli uomini e le donne che vivevano un’esistenza ricca, sicura e serena basata principalmente su attività come l’agricoltura e la pesca, ora non riescono nemmeno a sfamare le proprie famiglie a causa degli sversamenti di petrolio che hanno condannato le specie viventi all’estinzione, hanno reso il terreno inabitabile e incoltivabile, l’aria irrespirabile.

Come riportano Amnesty International e l’ONG Friends for the Earth Nigeria, innumerevoli sono state le morti dagli anni sessanta ad oggi legate a patologie respiratorie contratte a causa dell’inquinamento ambientale. Gli attivisti locali hanno inoltre denunciato la mancanza di trasparenza e accountability da parte delle grandi compagnie petrolifere e delle joint venture che si occupano dell’estrazione del greggio. I danni economici e ambientali cui far fronte riguardano anche l’usura e la sostituzione degli oleodotti ormai datati a causa degli sversamenti, oltre che l’abbattimento di migliaia di ettari di vegetazione per far spazio alle strutture necessarie. 

Nel 2011, l’UNDP (l’agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ha pubblicato il rapporto più completo dall’inizio delle attività della Shell nell’Ogoniland, in cui mette in chiaro i dati sull’inquinamento e le responsabilità della multinazionale olandese. Su questo rapporto, si basa il documento dal titolo “Clean it up” redatto nel 2015 da Amnesty International e il Centro per l’Ambiente, i Diritti Umani e lo Sviluppo (CEHRD).

Il documento analizza le condizioni di quattro siti per l’estrazione del greggio: Bomu Manifold, il pozzo 11 della Shell presso Boobanabe, Okuluebu e la palude di Barabeedom. Questi luoghi sono stati inoltre affetti da furti di petrolio, favoriti dalle pessime condizioni degli oleodotti. Il rapporto dimostra, attraverso il dispiegamento di osservatori sul campo, come ad oggi la compagnia olandese abbia totalmente fallito nel compito di ripulire, bonificare e rimettere in sesto queste zone, così come non sia stata capace di prevenire tali massicce fuoriuscite la cui conseguenza primaria, accanto all’inquinamento, è quella di condurre alla povertà e alla fame i villaggi del Delta del Niger. 

Allo stato attuale delle cose, vaste aree come quella del villaggio Boobanabe, risultano ancora profondamente inquinate: il terreno è nero, permeato dal greggio, e l’acqua è ricoperta da una patina oleosa, nonostante la perdita sia avvenuta nel 1975 e la Shell abbia dichiarato di aver bonificato la zona ben due volte.

Dal 2015, la situazione del Delta del Niger e le richieste per tutelare i diritti umani delle popolazioni dell’Ogoniland non sono cambiate. Alla Shell viene chiesto di prendersi le dovute responsabilità – al di là delle subdole operazioni di greenwashing (ndr ecologismo di facciata) – nel risarcire i danni subiti dagli autoctoni e mettere in campo le misure d’emergenza promesse per il valore di un miliardo di dollari.

Ad aggravare ulteriormente le continue violazioni dei diritti umani messe in atto, la crisi scatenata dalla pandemia che imperversa ha permesso alla Shell di mettere da parte le raccomandazioni dell’UNDP ed etichettare la propria attività di estrazione del greggio – con danni annessi – come “servizio indispensabile” sia per il PIL nigeriano che per i rifornimenti al resto del mondo.


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