Quando la poetica della street art viene deturpata dal denaro

 

Banksy ha dimenticato di essere uno street artist? Forse disprezzare un sistema che lo ha elevato a grande artista, fa parte di una tattica. Ci sono artisti come Blu che a questo gioco non ci stanno.


Dapprima emblema dell’inquietudine e della ribellione giovanile e simbolo dell’anticonformismo, la street art era considerata semplicemente vandalismo: i disegni, i tag realizzati dai writers per mezzo di bombolette dai colori più disparati – alla ricerca del contatto col pubblico casuale – altro non erano che pubbliche deturpazioni, atte semplicemente a rovinare l’estetica delle strade cittadine.

Quando si parla di street art si fa riferimento a delle opere a tutti gli effetti decontestualizzate e lontane dal “contenitore” che generalmente accoglie tutto ciò che è artistico, ovvero musei e gallerie: per questo motivo risulta molto più semplice parlare di vandalismo invece di allargare i propri orizzonti, andando oltre ciò che viene visto come inusuale e degradante. Leggere un’immagine è difficoltoso; scovare e capire il messaggio in esso celato lo è altrettanto. Immagini schiette, a volte forti, altre volte giocose e colorate: un mondo di parole non dette perché difficili, inaudibili e spaventose o perché nuove e destabilizzanti. Insomma, dirette ma spesso “illegali”.

Nulla vi è di più libero della street art così come la mente di chi la crea: unico pensiero nonché obiettivo è la comunicazione, esente da legami, da fini economici e da costrizioni/restrizioni legate a luoghi in cui non si può “parlare con tutti”. Perché una cosa è certa: il museo, per quanto si professi come luogo democratico con l’obiettivo di arrivare a una stragrande percentuale di pubblico variegato, non arriverà mai a quei “tutti” con cui gli street artist si auspicano comunicare. Ecco quindi, che la città, con le sue strade e le sue mura, diventano sinonimo di vita: a ogni ora le anime la popolano, la ammirano e la fotografano, e gli artisti puntano a riempire quegli spazi vuoti con forti denunce policromatiche, come se volessero riempire le pagine bianche di un diario che non vuol restare più segreto.

Gli street artist sono molto “gelosi” della poetica che si cela nei loro lavori: controcorrente, ritenendo i loro lavori “socialmente utili”, non hanno voglia di piegarsi a un sistema capitalistico che tra l’altro criticano: i muri sono le loro tele e la strada il loro museo; non hanno voglia di trovare o assestarsi in un luogo diverso da quello a cui devono il loro nome; le loro opere non nascono per essere valutate, battute all’asta e mercificate. È la loro natura.

Tuttavia, chi dapprima criticava, denunciava e invitava a cancellare, ha iniziato a scoprire il potere attrattivo di queste opere (“ai piani alti” interessa semplicemente questo), che talvolta riescono ad abbellire e illuminare gli angoli più bui – tanto da voler dare loro “dignità artistica” attraverso mostre pubblicizzate e a pagamento – e talvolta staccandole letteralmente e in maniera illegittima con la conseguente immissione nel tanto “disprezzato” circuito artistico e museale.

Niente di più sbagliato, perché è proprio l’esser fuori dal giro la forza di queste opere che si vedrebbero depauperate della loro poetica, perdendo così l’aura che le contraddistingue da sempre. È quasi impossibile, infatti, trovare un vero street artist favorevole alla “museificazione” delle sue opere.

Vi è, tuttavia, un caso un po’ controverso, che porta il nome di Banksy. Non ci è dato sapere chi sia e quale volto abbia questo artista che ha deciso di rimanere avvolto nell’anonimato. Ma poco importa: nell’oscurità vi è solo il suo volto dato che le sue opere sono di dominio pubblico. Lo abbiamo definito “caso controverso” perché non è ben chiara la posizione che lo street artist assume, ma andiamo con ordine.

Non sono nuove nel panorama museale le mostre recanti la firma dell’artista il quale, però, si appresta a sottolineare come le stesse siano “non autorizzate”: Ferrara, Milano, l’ultima a Palermo visitabile sino al 17 gennaio 2021. È possibile credere che l’artista sia del tutto contrario al pensiero che le sue opere siano affisse in uno spazio museale, in cui il pubblico, previo pagamento, ammira qualcosa di cui avrebbe potuto godere gratuitamente e all’aria aperta?

Eppure di mostre ce ne sono state tante in passato e continuano ad essere organizzate: la semplice dicitura “non autorizzate” non vale nulla di fronte a una ipotetica azione legale contro i curatori delle sopradette mostre per violazione di copyright. Ma nulla di tutto questo (che si sappia) è stato fatto.

Probabilmente il primo pensiero è che, sguazzare all’interno di un circuito in cui ormai è difficile entrare, potrebbe “far comodo”; si tratta di un mondo in cui è più importante il nome di chi produce e non più cosa produce: ciò significa che la vera arte è diventare un brand. Ed è proprio il brand che il più delle volte attira: questa è una verità ben nota a curatori, galleristi e critici d’arte del nuovo millennio che sembrano abdicare al loro impegno conoscitivo –  rinunciando a leggere in profondità ciò che gli artisti propongono attraverso il proprio lavoro – a favore del business e dei guadagni che ne possono ricavare, anche in termini di notorietà.

Siamo giunti a questo inaridimento attraverso un processo complesso, legato alle strategie globalizzanti del mercato dell’arte e al prevalere dell’homo oeconomicus, basato su una razionalità strumentale volta all’acquisizione e al consumo. Ed è inutile dirlo: ne è consapevole anche Banksy, ormai elevato a status symbol ben lontano dall’ideale di street artist con il quale il mondo lo aveva conosciuto.

Difatti, basti pensare a Bambina col palloncino una delle opere più note dell’artista – visto e rivisto in tutte le salse: tatuaggi, magliette, stencil, ecc… insomma, merchandising à gogo! – battuta all’asta di Sotheby’s per circa un milione di sterline; ciò che fa storcere il naso, in primo luogo, è il binomio  asta-milioni di sterline riferite a un’opera di street art. Non appena battuta all’asta, la povera Bambina con palloncino è andata incontro a un inaspettato processo di autodistruzione, messo appositamente a punto dall’artista per stigmatizzare la commercializzazione dell’arte. Processo che si è compiuto a metà perché l’opera è sopravvissuta al ponderato sabotaggio del suo creatore, tanto che le verrà successivamente attribuito un nuovo titolo: L’amore è nel cestino.

La calcolata e pubblica spettacolarizzazione sposata con un fastidioso anonimato (suvvia, tutti vorrebbero dare un volto a questo nome!) fanno da cassa di risonanza. Risultato? Accrescimento del valore dell’opera e la felicità dell’anonima acquirente con un Banksy originale nella sua collezione. Ma voleva davvero boicottare l’asta o si è trattato semplicemente di un  grande bluff? Anche questo non ci è dato saperlo.

Se si deve parlare di atti contro la commercializzazione e l’istituzionalizzazione delle opere è giusto citare la vicenda bolognese che vide protagonista, nel 2016,  il nostrano street artist di fama internazionale Blu contro la grande istituzione culturale Genus Bononiae.

Quest’ultima, infatti, ha organizzato la mostra “Street art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano” costituita da 250 opere provenienti da varie parti del mondo, compresi anche alcuni disegni dell’artista Blu staccati dai muri in cui erano stati realizzati.

Un’appropriazione indebita che ha spinto l’autore a cancellare un ventennio di lavori in giro per la città in segno di protesta, contestando la sottrazione di beni collettivi dallo spazio pubblico e la malcelata intenzione legata al profitto e alla privatizzazione. E, di certo, non è una quaestio di poco conto, dato che i casi in cui le case d’asta internazionali hanno staccato dai muri i graffiti per metterli in commercio a migliaia di dollari si sono moltiplicati.

Nel corso di una frenetica notte Bologna ha perso tutti i murales di Blu, coperti da una passata di vernice grigia. La risposta di Blu è forte e coraggiosa, non data sicuramente a cuor leggero, considerando anche che il Capoluogo emiliano è proprio dove l’artista ha mosso i primi passi come street artist. Bologna, dunque, racconta una storia, la sua storia, la sua crescita e la sua affermazione attraverso quelle opere che ha sicuramente amato, ma che ha dovuto cancellare.

Blu, vero artista, non si è piegato dinanzi al profitto che sicuramente poteva trarre da questa imbarazzante situazione, ed è rimasto fedele alla sua arte: l’ha salvata dal voyeurismo museale preferendo “ucciderla” anziché vederla fatta a pezzi e rimirare in un contesto non suo; ha preferito la coerenza all’ipocrisia di coloro i quali in passato l’hanno schifata, considerandola atto di deturpazione, e che adesso la ammirano e la vogliono per sé, solo perché il mercato artistico ha ampliato i suoi orizzonti si è accorta del valore della street art.

Probabilmente c’è chi tira acqua al proprio mulino fingendo di storcere il naso dinanzi a un sistema che sembra non gli vada a genio, ma su cui ama silenziosamente crogiolarsi e trarne beneficio, e c’è chi il naso lo storce davvero perché ancora crede in qualcosa, tutelando i suoi ideali anziché vendersi al miglior offerente piegandosi di fronte a ciò da cui è sempre fuggito. Insomma, il mondo (dell’arte!) è bello perché è vario.

Copertina di pedro layant, Banksy vs. Bristol Museum