Euphoria: la generazione Z senza filtri

 

La serie “Euphoria” torna alla ribalta dopo il trionfo agli Emmy Awards di Zendaya, che entra nella storia come donna più giovane ad avere vinto questo premio per una serie drammatica.


«Quando odi il tuo cervello e il tuo corpo, è difficile goderti tutto il resto».

Proprio questa frase si presta a essere una delle chiavi di lettura principali su cui ruota la serie Euphoria, trasmessa già nel settembre scorso su Sky Atlantic (ma disponibile on demand e su NowTv) e tornata alla ribalta a seguito della vittoria dell’attrice protagonista Zendaya agli Emmy Awards, assegnati la scorsa settimana con una cerimonia sui generis, causa Covid-19; Zendaya, a soli 24 anni appena compiuti, diventa la donna più giovane ad aver mai vinto questo ambito premio per una serie drammatica, battendo attrici del calibro di Jennifer Aniston, Laura Linney e Olivia Colman.

Euphoria si presenta come un vero e proprio pugno allo stomaco che apre una voragine sui punti più oscuri della cosiddetta “generazione Z”: dipendenza da droga, alcool, cyberbullismo, body shaming, abusi, omosessualità sono soltanto alcuni dei temi trattati con realismo e crudezza in otto episodi dove si susseguono scene forti, angoscianti e spesso disturbanti.

Disturba il percorso autodistruttivo attraversato da questi ragazzi, il totale menefreghismo nei confronti dei loro corpi, (mal)trattati come involucri ingombranti e scomodi; disturba la loro apatia nei confronti del mondo: «Non c’è niente che mi appassioni veramente, non mi va di fare niente», dice Rue (la protagonista interpretata da Zendaya) in uno dei suoi monologhi, e per lei va bene così; per il mondo intorno sembra essere un problema, ma a lei non importa proprio nulla, perché il suo unico e costante pensiero è quello di procurarsi droghe, di qualunque tipo.

Euphoria indaga disfunzionalità emotive e problematiche caratteriali senza scendere in luoghi comuni: ogni personaggio viene analizzato partendo dall’infanzia, il ché rende tutto ancora più frustrante e triste; il paragone tra passato e presente è devastante, anche perché il regista Sam Levinson si preoccupa di individuare il momento esatto in cui la vita di questi bambini viene stravolta (ovviamente in peggio).

Il passaggio da un’infanzia felice a un’adolescenza problematica e distruttiva è sempre segnato da eventi traumatici che creano una rottura inevitabile nelle fragilità latenti, ma presenti, che vengono fuori con conseguenze terribili: Rue che inizia a prendere le prime pillole rubandole dal comodino del padre morente, a cui faceva assistenza mentre la madre era a lavoro, quasi per gioco; Kat che torna dall’estate con nove chili in più dopo aver bevuto decine e decine di Virgin colada in vacanza, nella totale distrazione dei genitori, e da quel momento in poi sarà sempre additata come “la ragazza grassa”; Nate che scopre i video del padre che aveva rapporti con ragazzi transessuali (e continua ad averli); Jules che viene portata con l’inganno in una clinica per combattere la sua “devianza”.

La distruzione di questi ragazzi porta con sé quella di intere famiglie; Euphoria, infatti, ci fa intravedere anche le fragilità degli adulti: genitori alcolizzati, perversi, disperati di fronte all’assenza di comunicazione coi propri figli, anime schiave dell’apparenza di una vita perfetta e felice.

Questa serie mostra il ritratto di una generazione che non è affatto esagerato, enfatizzato, o distante dalla realtà, tutt’altro: gli smartphone diventano armi per distruggere la reputazione dei propri coetanei, per ricattarli, per ferirli, con la diffusione di foto e video privati che ritraggono i soggetti in rapporti sessuali, o in atteggiamenti intimi.

Corpi violati, fiducia inesistente nel prossimo, anime perse in un turbinio di luci psichedeliche: Euphoria ci costringe a guardare senza filtri ciò che accade quotidianamente sotto i nostri occhi, forse anche con la speranza che il mondo degli adulti, spesso indifferente, possa riuscire ad aiutare, o quantomeno ad affrontare temi così pesanti, come le dipendenze e non solo (ricordiamo che la serie non è un classico “teen drama”, quanto piuttosto un prodotto fatto da adulti e per gli adulti).

Ma in questa serie non è proprio tutto nero: c’è spazio per sentimenti come l’amicizia, quella spontanea e genuina, l’amore, o qualcosa che gli si possa avvicinare molto, quando si hanno 17 anni (sebbene possa essere spesso malato, tossico), la tenerezza (come quella della madre di Rue che accarezza i capelli della figlia, a letto, in una scena quasi da famiglia “normale”).

Sicuramente Euphoria non vuole offrire soluzioni alla lotta alle dipendenze, alla depressione, ma vuole sbattere in faccia con tutta la crudezza possibile problemi reali all’ordine del giorno, sottolineando come non costituiscano affatto casi isolati o mere eccezioni, alla luce della loro preoccupante diffusione. Perché quello che è certo, è che non si può risolvere un problema, se prima non lo si riconosce e non lo si affronta.


 
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