Covid-19: il problema del licenziamento e la nuova normativa

 
 
 

La pandemia ha provocato problemi rispetto al rapporto tra datore di lavoro e lavoratore in virtù delle difficoltà per le aziende di proseguire la propria attività.


Prima di soffermarci sulle recenti novità legislative in tema di risoluzione del rapporto di lavoro, derivanti dall’emergenza epidemiologica del Covid-19, è opportuno porre alcune premesse generali sull’istituto giuridico del licenziamento individuale nel rapporto di lavoro privato. In generale la cessazione o risoluzione del rapporto di lavoro può avvenire per una delle seguenti cause:

  • dimissioni del lavoratore: il lavoratore può recedere dal rapporto in qualsiasi momento purchè rispetti i termini di preavviso stabiliti contrattualmente;
  • causa indipendente dalla volontà delle parti: morte del lavoratore, arresto o carcerazione del lavoratore, scadenza del contratto a termine;
  • risoluzione consensuale;
  • raggiunti i limiti d’età: al raggiungimento dell’età pensionabile o al compimento dei requisiti per ottenere la pensione;
  • licenziamento.

In particolare, per ciò che concerne il licenziamento, esso costituisce una forma di recesso dal contratto di lavoro attuata unilateralmente dal datore di lavoro, la cui disciplina è basata, primariamente, sul divieto – di derivazione Costituzionale – di immotivatezza dell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro.

Il divieto di cui sopra, prende vita dalla costituzionalizzazione del diritto del lavoro intesa quale affermazione all’interno della Carta Costituzionale di principi di tutela del lavoro e della retribuzione quale misura di dignità e libertà del lavoratore (considerato la parte debole del rapporto). Essi hanno condotto al superamento della scarna ed originaria disciplina del Codice Civile del 1942 per arrivare all’emanazione della Legge n° 604 del 1966.

Quest’ultima, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, ha sancito l’illegittimità dei licenziamenti adottati in mancanza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo oggettivo o soggettivo”, sancendo così il generale principio di giustificazione del licenziamento.

L’ordinamento ha così dato vita ad una serie di interventi che hanno ridotto ad ipotesi davvero limitate la possibilità per il datore di lavoro di procedere ad un licenziamento privo di giustificazione (c.d. licenziamento ad nutum). Analizzando i presupposti di validità dell’atto di recesso datoriale, essi si sostanziano nella necessaria presenza di requisiti di natura sia sostanziale che formale del relativo atto (lettera di licenziamento).

In ordine ai requisiti di natura sostanziale, in particolare, gli stessi si traducono nella necessaria presenza di una causa giustificatrice del licenziamento, il quale, può avvenire esclusivamente in presenza di una giusta causa (art. 2119 c.c.) o di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3 Legge 604/1966).

A seguito della crisi pandemica, indubbiamente l’esecutivo si è trovato nella difficile condizione di mediare tra le richieste delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro per un periodo di sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che andassero al di là della mera emergenza bimestrale (D.L. n. 18/20120), poi portata a 5 mesi dal D.L. n. 34/2020. 

Infatti, considerato che il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può protrarsi all’infinito, il Governo attraverso l’art. 14, D.L. 14 agosto 2020, n. 104, ha delineato una nuova disciplina la quale, in un certo senso, allenta le rigidità dell’art. 46, D.L. n. 18/2020 e, poi, con il D.L. n. 46 ha creato una sorta di recessi “a geometria variabile” ove, per calcolare il giorno esatto entro il quale si può procedere al licenziamento, occorre fare una serie di verifiche. Nello specifico, il primo comma del predetto articolo afferma che:

a) sussiste, in linea generale, la preclusione all’avvio delle procedure collettive di riduzione di personale richiamate dagli articoli 4, 5 e 24, legge n. 223/1991 e la sospensione di quelle avviate successivamente al 23 febbraio 2020;

b) sussiste un divieto di licenziamento per quei datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti integrativi salariali Covid–19 previsti dall’art. 1 o che, in via alternativa, stiano fruendo, dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali previsto per 4 mesi in favore di quei datori di lavoro che rinunciano a “godere” degli ammortizzatori sociali;

c) il divieto non sussiste nell’ipotesi del cambio di appalto;

Mentre il secondo comma specifica che sono sospese le procedure in corso previste dall’art. 7, legge n. 604/1966, né possono esserne avviate di nuove stante il periodo di sospensione. Bisogna precisare, inoltre, che il blocco totale dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che si riferisce anche ai piccoli datori di lavoro subisce delle deroghe come previsto dal comma 3 dell’art.14 D.L. 14 agosto 2020, n. 104 ovvero:

  • per i licenziamenti derivanti dalla cessazione definitiva dell’azienda;
  • per i licenziamenti conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, qualora nel corso della procedura non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano realizzare un trasferimento d’azienda o di un ramo della stessa;
  • in accordo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale in cui si incentiva la risoluzione del contratto, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al suddetto accordo (cui viene comunque riconosciuta la NASPI);
  • ed infine per i licenziamenti intimati a seguito di fallimento dell’azienda, nei casi in cui non vi sia o cessi l’esercizio provvisorio d’impresa.

Si deduce dunque come da un lato il governo abbia cercato di tutelare i lavoratori in questo periodo di difficoltà, ma abbia anche, dall’altro lato, cercato di essere flessibile nei confronti dei datori di lavoro anch’essi trovatisi in una condizione difficile da gestire.


 

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