Coprifuoco: breve guida per non temere la dittatura

Passato e presente del coprifuoco, una parola che fa paura. Il nuovo provvedimento italiano contro la pandemia non è il primo e non sarà l’ultimo a incidere sui nostri ritmi.


Il termine «coprifuoco» è stato recentemente tirato in ballo fra le misure fondamentali per fermare la catena del contagio del coronavirus. È stato anche identificato come un provvedimento liberticida, data anche l’associazione naturale che facciamo a un’ambientazione bellica, nella quale siamo abituati ad apprenderne l’applicazione. Insomma, il concetto ha a che fare, a ragione, con un sentire comune del tutto negativo, fatto di timori e privazioni.

Il vocabolo fa irrimediabilmente parte di un approccio giornalistico in voga negli ultimi mesi, ma viene accuratamente evitato dagli stessi protagonisti istituzionali. È tanta la paura intorno a questa parola; tutto merito del suo impatto notevolmente più violento sulla psiche rispetto al fresco, rapido (e inglesissimo) lockdown.

Il coprifuoco notturno, un vero e proprio stop alla circolazione delle persone, è da pochi giorni realtà in alcune Regioni fra le più grandi in Italia, appunto Lombardia, Lazio e Campania (e a breve anche la Sicilia). «A mali estremi, estremi rimedi», si direbbe. Ma si può fare di meglio: «conosci il nemico per una sicura vittoria»; e siccome il nemico italiano sembrano essere diventate le restrizioni, più di una pandemia mondiale che ha ucciso oltre un milione di persone in tutto il mondo (in circa dieci mesi), indaghiamo le origini, l’evoluzione e le applicazioni storiche e recenti dell’odiato coprifuoco. Chissà, forse riusciremo a sopravvivere alle serate in casa che presto, con tutta probabilità, diverranno normalità in tutta Italia.

In Francia è il “confinement”, in Gran Bretagna è il “curfew”. In Italia utilizziamo l’espressione coprifuoco, la cui origine risale al Medioevo. L’usanza, anticamente, prevedeva che in alcune città, al fine di prevenire gli incendi, venisse spento ogni fuoco o lume durante le ore notturne. La campana del coprifuoco indicava agli abitanti della città di coprire il fuoco con la cenere o con altro mezzo che disinnescasse il rischio incendi. Tragedie accidentali di questo tipo erano frequenti dati i materiali di costruzione delle case, perlopiù legno. La misura di sicurezza, inoltre, intimava a tutti i componenti della comunità di starsene chiusi in casa nelle ore serali, con multe salate per i trasgressori.

Quando si chiudevano le porte della città, andava scongiurato il pericolo di roghi e riunioni durante le ore di buio. Nessuno sconto in questi casi, nessuna autocertificazione. «Quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis», così è documentato un episodio che coinvolge il celebre poeta senese Cecco Angiolieri, pizzicato almeno due volte a violare il coprifuoco, e il terzo suono della sua campana che ne decretava l’avvio: nel 1281, durante un assedio ghibellino, si allontana dal campo al calar della notte senza valida giustificazione; nel 1282, invece, si attarda dopo aver girovagato di taverna in taverna. Prima del “poeta maledetto” di verlainiana memoria, possiamo dire ci sia stato il “poeta multato”.

Una delle prime applicazioni invece “strategiche” della limitazione della circolazione delle persone (non proprio il coprifuoco) risale all’Inghilterra del IX secolo d.C. In quel periodo il territorio, diviso in molti regni, stava affrontando le invasioni dei Vichinghi. Il re del Wessex, Alfredo il Grande, impose un’ordinanza che obbligava gli abitanti di Oxford a restare nelle proprie abitazioni a partire da una certa ora della sera per difendersi meglio da eventuali assalti.

I saccheggi dei Norreni, abili combattenti e primi veri attori della globalizzazione, avrebbero avuto comunque la meglio sugli Inglesi, anche sul primato dell’uso del coprifuoco, o almeno di questa precisa terminologia. Fu Guglielmo I “il Conquistatore”, primo re normanno d’Inghilterra, nel XI secolo, a stabilire il rientro coattivo dei sudditi inglesi nelle proprie abitazioni e lo spegnimento di ogni fuoco domestico contro ogni possibile cospirazione nell’oscurità.

L’origine normanna del coprifuoco può infatti spiegarsi ripercorrendo le “tappe” linguistiche in quei territori. Guglielmo introdusse la lingua normanna (della Normandia), una ramificazione del francese antico, fino alla completa fusione con l’old english. «Curfew» deriva dal medio inglese «curfeu», a sua volta mutuato dal francese antico «couvre-feu», proprio copri-fuoco, come si può intuire dalla somiglianza con la versione italiana. Circa un secolo dopo l’arrivo di Guglielmo, lo “Statuto delle libertà” del 1100 avrebbe sancito di fatto l’avvenuta integrazione fra i due popoli e, quindi, anche l’abolizione della “curfew law”.

Facendo un balzo in avanti, in tempo di guerra, il coprifuoco continua a consentire la protezione o il controllo delle persone. Nel nostro Paese, durante l’occupazione nazista, ai cittadini barricati in casa era impedito qualunque tipo di assembramento: diverse città italiane subirono un durissimo coprifuoco notturno che doveva limitare gli incontri della popolazione locale – è il caso di dirlo – «col favore delle tenebre». Chiunque non avesse un permesso, infatti, veniva pesantemente sanzionato o, peggio, percosso. Di certo, non era il “coprifuoco di 23 ore” imposto da Totò, farlocco carabiniere ne I due marescialli, durante un’esilarante quanto indimenticabile conversazione con lo stolto podestà fascista.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in tutta Italia, a partire dal 26 luglio 1943, all’indomani della caduta di Benito Mussolini, il governo Badoglio impose un coprifuoco che costringeva i cittadini a rimanere chiusi in casa dalle 22 e 30 alle 5 del mattino (poi ridotto fino alle 4). «Nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento», e al minimo “perturbamento”, si poteva essere «passati per le armi».

È questo l’ultimo episodio in cui venne imposto un limite orario alla circolazione dei cittadini italiani, prima dei recenti provvedimenti di contrasto al coronavirus: allora furono 45 giorni di rigido ordine pubblico e «nessuna tolleranza», come recitavano anche i manifesti affissi per strada.

Molti Paesi nel mondo hanno attraversato in tempi lontani e recenti dei coprifuochi, e per svariate ragioni. In Francia, ad esempio, quello imposto dai nazisti doveva limitare la possibilità di riunire i componenti della Resistenza; quello che invece si autoimpose la popolazione nel 1942 fu una forma di “difesa passiva” per ripararsi dai bombardamenti.

In Algeria, però, il 3 aprile 1955, gli stessi francesi, coloro che lo avevano subito nel decennio precedente, applicarono il coprifuoco a causa degli attentati del Fronte di Liberazione Nazionale. La stessa misura fu applicata anche a Parigi nell’ottobre 1961, ma solo nei confronti dei francesi musulmani d’Algeria. Questi, però, si ribellarono e protestarono pacificamente per una misura ritenuta discriminatoria e ingiusta; un centinaio di loro trovarono la morte nelle durissime repressioni armate del governo francese. 

Altri coprifuochi sono stati quelli del 2005 e del 2015, sempre a Parigi, per motivi legati, rispettivamente, a violente proteste e al terrorismo islamista. Negli Stati Uniti, recentemente, a causa degli accesissimi scontri tra manifestanti e polizia a seguito di alcuni casi di eccesso di violenza dei poliziotti su afroamericani, si è arrivati a fissare dei coprifuochi in ben 25 città statunitensi.

Foto di Jordi Bernabeu Farrús

Come in guerra o no, l’attuale misura restrittiva del coprifuoco non corrisponde al lockdown – altro termine che abbiamo imparato a conoscere in questo sciagurato 2020 – ma sta diventando anch’essa una misura localizzata nel nostro Paese, alternativa al lock, atta a scongiurare un altro crollo economico che, nella pratica, vedrà effetti pesantissimi, se all’adattamento delle attività non si affiancherà un sostegno reale e diffuso.

Le due espressioni che abbiamo affiancato coincidono solo in parte. In italiano il lockdown è tranquillamente traducibile con un più immediato “blocco” (delle attività, delle scuole, della ristorazione, ecc). Il lockdown che conosciamo – e che di fatto abbiamo applicato fra marzo e maggio con il «resto a casa» – è infatti un protocollo di emergenza che impedisce alle persone di muoversi in un’area per salvaguardare, nello specifico, la salute pubblica.

Il coprifuoco, invece, indica una sospensione delle attività e del movimento, provvisoria e di carattere tendenzialmente notturno. In sostanza, sono due misure davvero estreme, con la differenza che la seconda permette di vivere “giornate a metà” che, secondo una percezione diffusa e irrazionale, sembra mutilare la libertà, più di un blocco totale, percepito quasi come più “coerente” e rotondo.

All’orizzonte, la cifra di mezzo milione di contagiati nel nostro Paese, e un numero di morti che si sta avvicinando ai 37 mila, in maggioranza nel Centro-Nord d’Italia, impongono massimo rigore e tempestività nell’intervento di contenimento della pandemia. Atteggiamenti che sono mancati in un’estate, per dirla con un ossimoro, “liberamente liberticida” (a posteriori).

Proprio perché nei mesi caldi siamo stati liberi di ucciderci la libertà, a un mese dall’arrivo dell’autunno, possiamo raccontare una storia nuovamente drammatica, fatta di reparti Covid quasi saturi, terapie intensive sotto stress e un tracciamento della malattia, numeri alla mano, divenuto impossibile anche per l’app Immuni. Come se non bastasse, il sistema sanitario è prossimo al collasso, bloccato da vent’anni di congestione occupazionale e da un approccio pseudo-imprenditoriale fallimentare. E allora, coprifuoco sia.

Copertina di Mattia Marziali


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