Colazione da Tiffany: il classico intramontabile

 

Usciva nell’ottobre del 1961 l’iconica pellicola “Colazione da Tiffany”, destinata a fare la storia del cinema, ispirata all’omonimo libro di Truman Capote.


Se dovessimo utilizzare un solo aggettivo per descrivere Audrey Hepburn che interpreta Holly Golightly in Colazione da Tiffany, probabilmente quello più adatto sarebbe svampita. Fortunatamente non abbiamo questi limiti, perché di cose da dire ce ne sono, e anche parecchie. Sono, infatti, ben cinquantanove anni che il film di Blake Edward tratto dall’omonimo libro di Truman Capote, fa parlare di sé: precisamente il 5 ottobre del 1961 usciva nelle sale americane Colazione da Tiffany, una storia destinata a rimanere immortale.

La trama è molto semplice, e nota a tutti: la giovane Holly (una iconica Audrey Hepburn che entrerà nella storia col suo tubino nero di Givenchy) vive a New York una vita per certi aspetti strana, volutamente lasciata nell’alone dell’ambiguità, e una serie di vicissitudini la avvicineranno sempre di più al suo nuovo vicino di casa Paul, scrittore squattrinato, anch’egli dalla vita abbastanza equivoca e poco limpida.

Non è ben chiara quale sia la professione di Holly, come riesca a guadagnarsi da vivere, perché probabilmente la sua era una di quelle attività che alla fine degli anni ’50 non si poteva neanche pronunciare a Hollywood; ma Audrey Hepburn riesce magistralmente a conferire a questo personaggio una tale eleganza e raffinatezza, che nessuno si sognerebbe mai di chiamarla sgualdrina, o prostituta: lei è quella che oggi potremmo definire una escort, un’accompagnatrice, una glamour girl che sta con uomini che a fine serata le fanno regali, come «50 dollari per andare alla toeletta e altri 50 per il taxi»; uomini che però, il più delle volte, si rivelano essere dei «vermi schifosi», alcuni dei «super vermi».

Colazione da Tiffany ha trovato il modo di raccontare, senza scendere mai nella volgarità, un periodo di deterioramento sociale attraversato dall’America di quegli anni, un’America che diventava sempre più superficiale e individualista, con le prime donne “atipiche” che iniziano ad affermarsi, stonando con l’ideale di femminilità classica tipico di quel periodo.

Holly, infatti, è l’emblema di un desiderio di libertà estrema, un «animale selvatico», come lei stessa si definisce (e viene definita dagli altri) più volte: una creatura selvaggia ferita che viene curata, ma che una volta guarita finirà comunque con lo spiccare il volo e andarsene, perché quella è la sua natura.

Holly sostiene un amore libero, slegato dalle convenzioni: lei “non vuole appartenere a nessuno”, si rifiuta persino di dare un nome al suo gatto (chiamato, per l’appunto, gatto), per evitare ogni forma anche solo embrionale di possesso e appartenenza; ma il suo animo apparentemente espansivo e socievole nasconde in realtà profonde inquietudini. Sono le celebri “paturnie” quelle che attanagliano Holly, che non possono identificarsi con un semplice sentimento di tristezza, perché «uno è triste se piove, o se scopre che è ingrassato… le paturnie sono un’improvvisa paura di non so che»: ed è in questa frase enigmatica che è racchiusa l’irrequietezza di Holly, in questi attacchi di panico sui generis, che nemmeno lei riesce a spiegare.

Le paturnie sono la sua ansia, la sua angoscia, l’essere travolta da pensieri scomodi e pesanti, che riguardano il suo passato – il film ci rivela una Holly che sposa a 14 anni un uomo molto più grande di lei, per poi scappare dal Texas a New York, iniziando una nuova vita –, ma soprattutto il suo presente, sempre in bilico tra una festa (in cui non conosce la metà degli invitati) e il tentativo di accalappiare un uomo ricco per farsi mantenere. E quando arrivano le paturnie, l’unico modo che Holly conosce per calmarsi è andare da Tiffany; ma non è la vista dei gioielli a tranquillizzarla, bensì l’atmosfera distesa, i commessi gentili: «Non può succederti niente di brutto da Tiffany. Ecco, se io riuscissi a trovare un posto dove abitare che mi facesse sentire come da Tiffany, allora comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto».

Ma Holly quel posto in cui “stare” non lo ha ancora trovato, e per una semplice ragione: perché, prima o poi, non importa dove lei corra, «finirà sempre per imbattersi in se stessa», come le urla in faccia Paul, il suo vicino di casa perdutamente innamorato di lei.

L’intera pellicola ruota attorno alla difficoltà di gestire legami solidi e duraturi: la paura di abbandonare la propria libertà decidendo di appartenere a qualcuno, amandolo, porta Holly a rinnegare i sentimenti per Paul. Ed è qui che il film si stacca dal libro, preferendo un lieto fine in luogo del finale amaro proposto da Capote (il quale si arrabbiò moltissimo per questa scelta, che a suo dire snaturava l’intero personaggio di Holly e la sua storia).

La malinconia è il leit motiv di tutto il film, accompagnata dall’intramontabile colonna sonora “Moon River” di Henry Mancini e Johnny Mercer, che gli valse l’Oscar, composta e pensata appositamente per l’estensione vocale della Hepburn.

L’atmosfera sognante e senza tempo di una Fifth Avenue all’alba, avvolta in un silenzio quasi spettrale, contrasta col suono dei campanelli, dei citofoni, del telefono, delle voci sguaiate di tutte quelle persone che occupano le giornate di Holly, senza riempirle davvero, dando vita a qualcosa di unico mai visto prima, che ha reso questa pellicola intramontabile: Holly go lightly, letteralmente “vai lievemente”, il nome parlante che rispecchia il suo approcciarsi alla vita, in modo allegro, disilluso, apparentemente superficiale, che va oltre il solito modello di donna, quello intrappolato nella dicotomia “santa/poco di buono”, gettando le basi per una nuova figura femminile, con le paturnie sì, ma sempre libera e ribelle.