I «cimiteri degli angeli», i pro-life e le donne messe in croce

 
 

I cimiteri dei feti sono tantissimi in Italia, non sempre sono gestiti in modo trasparente e più di una donna si è accorta d’essere stata messa in croce.


Se succede che una donna legge il proprio nome su una croce indicante pubblicamente il luogo di sepoltura del proprio figlio sfortunatamente (o volontariamente) abortito, e senza averne avuta comunicazione alcuna, vuol dire che qualcosa non ha affatto funzionato. 

Quando è possibile andare a visitare, istruzioni alla mano, il luogo di tumulazione dei feti in un «cimitero degli angeli» in cui l’unica cosa a essere seppellita è il rispetto per le madri in nome di una pretesa ideologica, significa che è mancato ben più del semplice buon senso. Ma andiamo con ordine e senza affondare colpi alle convinzioni religiose, che nulla hanno a che fare con la faccenda della sepoltura dei feti.

Una settimana fa un post su Facebook ha improvvisamente acceso i riflettori su “che fine fanno i feti” e, in generale, sui prodotti dell’aborto. In questo post, in breve, si denunciava la sepoltura di un feto, corredata di croce bianca e nome della madre al cimitero Flaminio di Roma, senza che la madre avesse dato il consenso a tale trattamento, non solo del “prodotto del concepimento” ma anche, e soprattutto, dei suoi dati.

Dopo questo post di denuncia, l’associazione Differenza Donna ha ricevuto diverse segnalazioni che sono state sufficienti a preparare un’azione legale collettiva. «Come Differenza Donna – dichiara il legale dell’associazione, Ilaria Boiano, all’agenzia Dire – abbiamo presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Roma perché riteniamo siano state violate una serie di norme a presidio di diritti fondamentali». 

Quelle epigrafi, quelle identità violate, vanno contro l’autodeterminazione e la libertà di molte donne. Proprio perché l’indicazione del nome delle madri sulla tomba dei feti è un’aperta violazione a diversi diritti, in particolare quelli garantiti dall’articolo 21 della legge 194/78, il garante della privacy ha recentemente aperto un’istruttoria per far luce sulle responsabilità dei soggetti coinvolti.

Nel frattempo continuano a crescere i casi di donne che hanno scoperto la propria presenza dentro questi luoghi macabri, perché di questo si tratta: le croci con nomi di persone viventi e in salute sono qualcosa di semplicemente abominevole. Se, inoltre, pensiamo che la donna in questione abbia vissuto una procedura di aborto per qualsivoglia ragione, sia essa naturale o grazie a una legge (ricordiamolo, fortemente voluta dal consenso popolare e ribadita con un referendum) che garantisce la sicurezza e l’anonimato della madre, l’abominio è doppio.

Soggetti ed enti del mondo della Chiesa hanno una visione chiara dei protagonisti di questa storia, i feti: su Avvenire un editoriale di Antonella Mariani afferma che «sotto quella croce c’è la dignità di un bambino mai nato (…) una creatura innocente che non ha potuto nascere, il più innocente di tutti, uno di noi». Pur essendo ineccepibile che si tratti di un punto di vista legittimo e coerente con un’idea di esistenza cristiana, non è tutto: bisogna ricordare che la fortuna di uno Stato laico è non solo quella di tutelare chi vuole interrompere una gravidanza, ma anche decidere o sapere che tipo di sepoltura riceverà il proprio feto che non ha, e non può avere, un innato credo religioso, tale da fargli piazzare una croce sopra a priori. Sembra difficile che tutti i circa 200 mila feti seppelliti in tutta Italia siano cristiani e cattolici. L’assegnazione di un credo ai feti fa salire il conto a un abominio triplo.

Sfortunatamente in Italia non esiste un elenco ufficiale dei cimiteri dei feti ma, secondo una mappatura realizzata da Jennifer Guerra, una giornalista di The Vision, sarebbero oltre una cinquantina. Anche se probabilmente, come dice la stessa autrice, la mappa è incompleta, è possibile farsi un’idea della diffusione di questi luoghi, che esistono nella totale legalità, perché previsti per legge (ai sensi del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285). 

Cercando di sintetizzare: secondo il regolamento di Polizia mortuaria del 1990 – senza considerare le differenze di Regione in Regione – la destinazione dei feti cambia a seconda delle settimane di vita. Bisogna infatti distinguere tra un feto oltre le 28 settimane, uno compreso tra le 20 e le 28, e uno al di sotto delle 20 settimane: nel primo caso viene registrato dall’ufficiale di stato civile e viene considerato “nato morto” e per questo motivo seppellito in cimitero come accade per qualunque altra persona; nel secondo caso è previsto l’obbligo di sepoltura, della quale si occupa la stessa Asl rilasciando gli opportuni permessi ed entro 24 ore i genitori possono fare richiesta di sepoltura privata; nell’ultimo caso, il feto di 20 settimane di gestazione, considerato come “prodotto abortivo” al pari degli arti mutilati, viene smaltito con una procedura che si chiama termodistruzione, ed anche in questo caso, se i genitori lo vogliono, entro 24 ore possono fare la richiesta per una sepoltura e occuparsene come meglio credono, entrando di fatto negli archivi cimiteriali che, ricordiamolo, sono pubblici. In Veneto, per fare un esempio di iniziativa regionale, è stato deliberato un anno fa (modifica all’articolo 40 della L.R. 4 marzo 2010, n. 18, comma 2 ter) che ogni prodotto dell’aborto debba ricevere sepoltura.

Diamo per scontato che qualsiasi operazione all’interno di queste procedure siano accompagnate dal consenso informato scritto e firmato dal genitore. Il problema è che molte donne raccontano che questo, di solito, viene affrontato solo verbalmente, senza predisporre una documentazione trasparente e completa. E molte Asl poi cosa fanno? Delegano a terzi lo “smaltimento” di embrioni e feti di ogni età, che si tratti di enti ultracattolici o associazioni pro-life di prestigio regionale o nazionale.

Già molte strutture ospedaliere in Italia si occupano della sepoltura assegnando un codice identificativo e la data, utili alla madre (e solo a lei) per essere a conoscenza del tumulo corrispondente a quello del proprio figlio. E questa dovrebbe essere la prassi. La dinamica veramente preoccupante è invece quella reiterata da realtà come “Difendere la vita con Maria”, una delle grandi associazioni cattoliche e pro-life che si occupano in molti casi della sepoltura dei feti, che mette alla “gogna” i nomi delle madri, lasciando diverse ombre sull’utilizzo dei dati sensibili. Come si regge questo sistema? Con quali competenze vengono gestiti i prodotti abortivi? Ci sono delle falle legislative.

Gli ospedali sono spesso affiliati a delle associazioni religiose che hanno stipulato dei protocolli di intesa, inserendosi negli elenchi delle associazioni di volontariato che collaborano con l’Asl. Questi soggetti – di fatto delle sette – ricevono in gestione, facendosi carico di tutti i costi, il residuo organico dell’interruzione di gravidanza, anche quello al di sotto delle 20 settimane, ed è a quel punto che l’ospedale, nei casi segnalati, consegna a dei fondamentalisti il nome della persona a cui è legato il feto. Un associato-missionario “tipo” crede che alcuni ospedali non comunichino gli orari delle sepolture «per nascondere i loro delitti» e che «costoro e chi abortisce verranno puniti da Dio»; la sepoltura, inoltre, serve a «far elaborare alle madri il senso di colpa» e superarlo recitando il rosario dei bambini non nati.

E la questione sanitaria? Non è comprensibile a che titolo queste associazioni possano occuparsi di un’operazione così delicata, anche da un punto di vista strettamente sanitario.  L’ospedale tratta embrioni e feti “giovani” come se fossero rifiuti sanitari a rischio infettivo e nonostante ciò delega questa funzione a dei gruppi religiosi antiabortisti. Non serve aggiungere altro.

Come si inseriscono “normativamente” le associazioni pro-life nelle procedure per la sepoltura di un feto? L’articolo 7 del regolamento di Polizia mortuaria prevede che «entro le 24 ore i parenti o chi per essi possono manifestare la volontà di dare sepoltura» al feto. In sostanza se i parenti non manifestano alcuna volontà, positiva o negativa, il chi per essi diventano proprio i soggetti ultracattolici. Paradossalmente, dunque, una sepoltura senza il consenso dei parenti potrebbe essere perfettamente legale. Il cavillo sta però nel verificare se la donna che ha abortito è stata messa a conoscenza che nelle 24 ore successive aveva la possibilità di esprimere un consenso. Per questo motivo, in mancanza di tale corretta condotta, in violazione del principio di trasparenza, la sepoltura è totalmente illegale, sempre escludendo il malaugurato caso di una inconsapevole firma su documenti di consenso.

E i nomi non stanno solo sulle croci. I database elettronici raggiungibili in vari siti web riescono a individuare una sepoltura anche con la ricerca basata sul nome della madre. La violazione della privacy delle donne che hanno abortito consiste, oltre che nella letterale “violazione della riservatezza”, nella violazione del diritto all’autodeterminazione sui propri dati personali, in particolare nell’aspetto del principio di proporzionalità nel trattamento di quei dati, spiattellati pubblicamente, senza alcun riguardo per l’aspetto emotivo materno – d’altronde chi abortisce viene generalmente considerato «assassino» dai pro-life – e nei confronti della dignità umana. 

Non sarà un deterrente abbastanza forte, più forte dei fondamentalismi a tutti i costi, ma va detto che i responsabili di queste violazioni rischiano grosso: conseguenze di tipo amministrativo, per aver usato i dati personali delle donne piuttosto che un codice identificativo e per aver mancato di trasparenza sulle procedure di consenso al trattamento, con una sanzione che può arrivare fino ai 20 milioni di euro; e di tipo penale per la diffusione illecita di un nome, per di più non proporzionata, che prevede la reclusione per il responsabile da 1 a 6 anni. Sarebbe bene, allora, rispettare tutte le donne e tutte le madri, e soprattutto non metterle in croce.


 
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