BCE, un cambio di paradigma: inflazione a più 2% e guerra valutaria

 
 

Le recenti dichiarazioni della Presidente Lagarde sul target dell’inflazione che può temporaneamente sforare il tetto del 2% aprono scenari rivoluzionari.


La Banca Centrale Europea (BCE), fin dalla sua istituzione, ha avuto un solo mandato: vigilare sulla stabilità dei prezzi. Come abbiamo accennato in altri articoli della nostra rubrica, questa impostazione è figlia di un periodo storico nel quale l’inflazione era ritenuta, a buon diritto, la principale minaccia all’economia europea, alla quale bisognava far fronte attraverso una politica dei prezzi restrittiva ed una forte credibilità dell’autorità monetaria. Per fare questo, la Banca venne plasmata a immagine e somiglianza della principale istituzione finanziaria europea: la Bundesbank.

Il mandato della BCE ha, quindi, un solo parametro cui rapportarsi: il tasso d’inflazione. Questo tasso ha un range preciso di oscillazione che deve essere sotto, ma prossimo, al 2%. Christine Lagarde sembra voler mandare in soffitta anche questo limite. Nel suo discorso alla conferenza “The ECB and its watchers”, tenutosi il 30 settembre a Francoforte sul Meno, la Presidente della BCE ha delineato una nuova rotta di politica monetaria nella quale anche il mancato perseguimento dell’obiettivo inflattivo verso il basso deve essere adeguatamente contrastato.

Christine Lagarde

Ciò ha portato la Presidente a indicare la possibilità di un “overshoot” del target inflattivo, cioè di uno sforamento del tetto del 2%, un’eresia per la BCE in tempi normali. Questo dovrebbe essere fatto per smuovere l’inflazione di fondo, ma anche per rendere maggiormente credibile l’impegno dell’Istituzione a riportare l’inflazione nel range “normale” da molti considerato fra 1,7% e 1,9%. 

Il motivo che ha portato al possibile cambiamento della linea di politica monetaria, che provocherà l’opposizione di molte Istituzioni monetarie del nord Europa, è anche il riconoscere gli effetti deleteri che la deflazione impone sull’economia europea. La deflazione è una realtà concreta per l’Europa. I dati rilasciati il 2 ottobre da Eurostat mostrano che essa, per il mese di settembre, è stata dello 0,3% e anche i dati dei mesi precedenti erano tutt’altro che rosei. L’impatto della deflazione su crescita, occupazione e consumi è deleteria. Inoltre, attaccare la deflazione, attraverso un target inflazionistico più elevato, consente di diminuire i tassi di interesse reali, dando maggiore ossigeno ai debitori e permettendo una maggiore libertà di consumo e investimento, stimolando la domanda aggregata.

Un altro fattore fondamentale che ha portato a questa scelta, seppur non dichiarato esplicitamente dalla Lagarde nel suo discorso, è l’andamento del corso valutario dell’euro nei confronti del dollaro. Negli ultimi mesi, in particolare dopo la dichiarazione del cambio di politica monetaria della Federal Reserve da parte del suo Presidente Jerome Powell e come avevamo ampiamente descritto in un nostro pezzo, la valuta americana si è deprezzata rispetto alla controparte europea. 

Le ragioni di questo deprezzamento vanno ricercate nella volontà da parte dei detentori di liquidità di privilegiare investimenti in paesi in cui il tasso di inflazione non erode il proprio capitale. Se la Fed dichiara esplicitamente di essere intenzionata a perseguire politiche pro-inflattive, ecco che una buona massa di liquidità attraverserà l’oceano Atlantico per raggiungere i caveaux dell’austera eurozona. A cascata, questo comporterà una maggiore domanda di euro e una vendita di dollari e, evidentemente in base alla legge della domanda e dell’offerta, produrrà come risultato un apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro. 

L’apprezzamento dell’euro ha un pessimo effetto per l’economia europea: se, da una parte, consente di comprare materie prime a prezzi più vantaggiosi, contemporaneamente rende più care le nostre esportazioni, diminuendone la competitività sul prezzo. In sintesi, le dichiarazioni di Powell hanno permesso il dispiegarsi di una svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro che ha reso le merci americane più competitive sui mercati e quelle europee meno convenienti. Una volta questo tipo di politica sarebbe stata definita “svalutazione competitiva”.

Proprio i timori legati al tasso di cambio stanno provocando malumori sia in seno al Consiglio Direttivo della BCE, dove, diversamente dalle dichiarazioni ufficiali che indicano come i tassi di cambio non siano fra i target della politica monetaria, crescono notizie di insofferenza, sia in seno alla Commissione Europea come riportato da Reuters che avrebbe visto un documento in anteprima. In questo documento si sottolinea la preoccupazione che un rafforzamento dell’euro di circa il 7,5% da inizio anno possa minare gli sforzi di rilancio dell’inflazione e di un rallentamento del recupero della crescita europea. Il documento, redatto in vista della riunione dei Ministri delle Finanze dell’eurozona, sottolinea come l’apprezzamento del 5% dell’euro riduca la crescita del PIL di circa un punto percentuale.

Anche attraverso il filtro di queste lenti possono essere lette le parole della Lagarde: mettere in linea con quella americana la politica monetaria europea dovrebbe rallentare l’apprezzamento dell’euro e la perdita di competitività delle nostre esportazioni. Dietro la facciata, seppur fondamentale in termini economici, dello stimolo per combattere la deflazione stiamo vedendo combattere una guerra valutaria tra le due sponde dell’Atlantico non dichiarata, ma non per questo meno intensa.


 
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