Il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Cambiare tutto per non cambiare niente?

Il 23 settembre la Commissione europea ha presentato un nuovo Patto sul sistema di accoglienza e di gestione delle migrazioni in Europa. Cosa cambia realmente del Regolamento di Dublino.


Come preannunciato nel suo discorso sullo stato dell’Unione, lo scorso 23 settembre la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha presentato il nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo che, se approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio, andrà a modificare il sistema comune di accoglienza e di gestione delle migrazioni previsto dall’ormai datato Regolamento di Dublino.

«Oggi, proponiamo una soluzione europea, per ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e ripristinare la fiducia dei cittadini nella nostra capacità di gestire la migrazione come Unione», ha detto Von der Leyen. «È giunto il momento di riunirsi attorno a una politica migratoria europea comune. Il Patto fornisce i pezzi mancanti del puzzle per un approccio globale alla migrazione», ha continuato il vice presidente della Commissione europea, Margaritis Schinas.

Il Patto – composto da una decina di atti legislativi – intende superare l’inefficienza del sistema di accoglienza di “Dublino” attraverso tre pilastri: la promozione di accordi con i Paesi di partenza, il rafforzamento delle frontiere esterne e l’introduzione di un “meccanismo obbligatorio di solidarietà”.

«La proposta di riforma è un palazzo a tre piani», ha spiegato Schinas. Al “primo piano” il rafforzamento della collaborazione con i Paesi terzi, di origine e di transito dei richiedenti asilo, con l’obiettivo di provare ad aiutarli nei Paesi di provenienza; al “secondo piano” un sistema cosiddetto di “pre-screening”, da attuare negli Stati di frontiera attraverso l’adozione di procedure veloci per l’esame delle richieste di protezione internazionale, che individuino entro cinque giorni chi ha diritto di richiedere asilo e chi invece debba essere rimpatriato; al “piano superiore”, un “meccanismo di solidarietà obbligatoria” tramite il quale gli Stati membri – verosimilmente quelli di frontiera – possono ottenere l’aiuto della Commissione.

Nel caso in cui uno Stato membro dovesse trovarsi a gestire una pressione migratoria o la previsione di una pressione migratoria, una crisi grave o lo sbarco di persone soccorse in mare, potrà infatti chiedere l’intervento della Commissione che a quel punto avrà l’obbligo di valutare la richiesta e, se del caso, decidere di attivare il nuovo meccanismo di solidarietà che prevede la redistribuzione non obbligatoria dei migranti irregolari e un sistema di rimpatri sponsorizzati (“return sponsorship”).

Accolta la richiesta di solidarietà avanzata da uno Stato membro, la Commissione individuerà il numero di migranti da redistribuire negli altri Paesi dell’Unione. A questo punto, gli Stati potranno scegliere se accettare di ricollocare all’interno del proprio territorio la quota di richiedenti asilo loro attribuita, oppure farsi carico del ritorno in patria dei migranti per cui è già stato accertato che non hanno diritto alla protezione internazionale.

In altre parole, agli Stati è data la possibilità di accogliere, secondo quote prestabilite, un certo numero di migranti irregolari provenienti da Paesi di frontiera, come Italia, Grecia, Spagna e Malta, oppure di finanziare, sempre secondo quote predeterminate, i rimpatri che saranno operati direttamente dal Paese di frontiera. 

I migranti in attesa di rimpatrio resteranno nel Paese di primo ingresso, ed entro otto mesi dovranno essere ricondotti nei Paesi d’origine dallo Stato membro che ha deciso di farsene carico. Scaduto questo termine, lo Stato “aiutante” dovrà occuparsi del completamento delle procedure, accogliendo sul proprio territorio i migranti coinvolti. 

Quanto alla determinazione della Stato competente per l’esame della domanda d’asilo, vero nodo critico del sistema “Dublino”, nulla viene invece previsto. Non è stata accolta la proposta – sostenuta dall’Italia e dagli altri Paesi di frontiera – di introdurre un meccanismo di redistribuzione automatica e obbligatoria dei migranti tra tutti gli Stati dell’Unione. La responsabilità di identificare i migranti e di esaminare le richieste di protezione internazionale rimane ancora in capo ai Paesi di primo ingresso, che devono affrontare gli oneri economici e finanziari delle procedure d’accoglienza e adesso dotarsi anche di più rapidi sistemi di screening.

Insomma, almeno per il momento, il Patto proposto dalla Commissione sembra “cambiare tutto per non cambiare niente”, e rischia anzi di introdurre uno strano concetto di solidarietà, estraneo ai valori e alla tradizione giuridica dell’Unione. 

In linea con i tentativi di riforma che, soprattutto negli ultimi cinque anni, si sono susseguiti riguardo alla politica comune d’asilo, il Patto non riesce a bilanciare equamente i costi e i benefici dei flussi migratori, né tantomeno a superare l’impasse che i governi sovranisti, specialmente quelli di Austria, Polonia e Ungheria, da sempre pongono all’introduzione di un meccanismo di equa ripartizione delle responsabilità; impasse che la stessa Commissione sta in questo caso finendo per assecondare.

Vero è che il Patto dovrà adesso superare il vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio, in seno ai quali gli Stati di frontiera proveranno a rivendicare modifiche non di poco conto, ma questo non basterà a “salvare” il diritto d’asilo delle migliaia di essere umani costretti a fuggire dai propri Paesi e ad affrontare viaggi disperati, non di certo nella speranza di essere rimbalzati da uno Stato all’altro.


 

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