Non solo Banksy: il valore della vita spiegato dagli artisti

 

L’immigrazione è un fattore naturale, umano. Soprattutto alcuni artisti sono diventati tali andando via dai loro paesi natali e forse è per questo che il tema dell’immigrazione appare spesso nei loro lavori.


Da atavica memoria, gli animali di ogni specie migrano: la ricerca del cibo o l’aumento delle temperature climatiche, li spinge ad andare oltre, dando così priorità al loro spirito di sopravvivenza. Si tratta di una condizione naturale, valida da sempre anche per l’uomo, partendo dall’era preistorica sino alle odierne migrazioni del Mediterraneo. E queste, proprio queste, a oggi sembrano infastidire i più. Poco importa se a traversare i nostri mari siano uomini disperati, donne, bambini in condizioni disumane. Poco importa se la paura di morire, a causa di problemi che in parte disconosciamo, li spinge oltre le coste della loro dimora di sempre, trovando probabilmente, e in egual modo, la morte nella speranza di salvarsi. Poco importa se sono esseri umani: la loro paura, le loro difficoltà e la loro disperazione si scontreranno sempre con degli esseri umani che di umano non hanno nulla.

“Stop invasione”, “Aiutiamoli a casa loro”, “Se ne ritornino a casa loro”: tanti, troppi slogan ripetuti come mantra invadono i social e i media, stigmatizzando così le convinzioni su cui si crogiolano quegli esseri non più tanto umani senza nessuna empatia. Sembrano, infatti, saturi d’odio, incapaci di specchiarsi in quelle vite disperate e incapaci di pensare “Eppure io sono nato nella parte fortunata del mondo”.

Aiutare e accogliere: null’altro per questi esseri umani, il più delle volte depauperati degli affetti più cari ma colmi di speranza nonostante la solitudine. Purtroppo, a volte non bastano i servizi al telegiornale né le foto che ci danno conto di una cronistoria agghiacciante. Chiamiamolo deficit culturale, o insensibilità: ciò che è certo è che molti animi non vogliono scuotersi.

Vogliamo legarci al tema dell’insensibilità per rendere nota, invece, quella parte – sopra menzionata – che di contro lotta per mezzo di organizzazioni non governative (ONG) o associazioni, al fine di una sensibilizzazione a questo tema scottante e controverso. Interculturalità, rispetto della diversità, empatia, amore per il prossimo: tra coloro che si battono per una presa di coscienza reale vi sono anche gli artisti, sempre attivi nel fare emergere quelle che sono le problematiche sociali per poter realizzare opere di denuncia delle stesse.

L’arte contemporanea e i suoi artisti si fanno portavoce della società odierna individuandone le criticità e mettendole alla mercé di tutti, anche di coloro i quali – volenti o nolenti – vivono con il “prosciutto sugli occhi”. Non si impuntano, gli artisti: narrano, mostrano attraverso il silenzio assordante delle loro opere obiettive e democratiche, così come l’arte si presta a essere.

A onor di cronaca è balzata la notizia della nuova opera di Banksy, l’anonimo artista che questa volta ha messo da parte i “graffianti graffiti” per prestarsi a qualcosa di più grande in senso sia fisico che da una prospettiva sociale e utilitaristica: il noleggio di una nave, la Louise Michael, al fine di soccorrere i migranti nel Mediterraneo. Opera in movimento e attiva, in contrapposizione alla più conosciuta sua arte, sì socialmente impegnata e impegnativa, ma statica e atta per un consumo meramente visivo.

In realtà, non è il primo caso di opera in movimento relativa al tema delle migrazioni: l’artista brasiliano Vik Muniz, infatti, ha preceduto negli intenti lo street artist: nel 2015, in occasione della 56esima Biennale di Venezia ha realizzato una barca di carta (in realtà in legno!) grande quanto un vaporetto veneziano in memoria dei numerosissimi morti naufragati durante le traversate nel Mediterraneo verso le coste europee. Il nome dell’installazione è evocativo, ovvero “Lampedusa”: il “foglio di giornale”, che dà forma alla barca, riporta la notizia della strage di Lampedusa del 4 ottobre 2013. La “barchetta” è stata ormeggiata in luoghi strategici nel porto di Venezia per tutto il periodo della Biennale, affinché potesse portare alla mente una realtà che non viviamo in prima persona, ma di cui avremmo potuto far parte se non fossimo nati nella “parte fortunata del mondo”.

“Lampedusa” di Vik Muniz, pur non essendo agibile, è stata anch’essa una sorta di nave di salvataggio: un’asta di beneficienza organizzata da Cristie’s vide infatti la barchetta come protagonista per una missione di fundraising a favore del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati).

Ritornando al concetto di arte impegnata e impegnativa, a far parte di questo parterre vi è anche l’artista dissidente, dai tratti sensazionalistici, Ai Wei Wei. In aperto contrasto con il governo cinese a seguito di denunce – palesate attraverso la sua arte – contro gli stessi vertici di stato, l’artista è anche ambasciatore di Amnesty International. Si tratta di un connubio edificante, ovvero tra la voglia di “sbattere in faccia” la realtà delle cose volutamente celate e la sua battaglia per i diritti umani, che trova esplicazione nell’opera – una delle tante, si intende! – Reframe.

L’installazione ha avuto luogo presso Palazzo Strozzi a Firenze: 22 gommoni di salvataggio arancioni hanno incorniciato alla perfezione le finestre del Piano Nobile del palazzo in questione. Un duro attacco all’Occidente, questa volta, accusato di prendere sottogamba la questione umanitaria del secolo. Quale miglior modo, dunque, di indurre una riflessione se non utilizzando l’elemento cardine, il mezzo attraverso il quale esseri umani cercano vita altrove.

Simile, altresì, l’installazione alla Konzerthaus di Berlino – in occasione della Berlinale – le cui sei colonne sono state interamente rivestite da 14mila giubbotti salvagente, raccolti sull’isola di Lesbo. Ma La domanda è: quanta gente si sarà davvero salvata?

installazione alla Konzerthaus di Berlino (Fridolin freudenfett – Wikipedia)

Anche l’artista albanese Adrian Paci, attraverso la sua arte, vuol mostrarci il dramma dell’immigrazione e, soprattutto, il peso di chi abbandona tutto. E chi meglio di lui, che ha abbandonato l’Albania nel 1997 perché in stato di emergenza, può raccontarcelo? Le sue opere narrano la storia – la storia dei tanti che fuggono – di un uomo che porta sulle spalle un fardello di dolore, di sofferenza, di nostalgia che sa di profumo di casa, di cari ricordi. 

Ogni essere umano ha la possibilità di ricostruirsi una nuova vita, ma quanti sospiri esalerà al ricordo di quella passata? D’impatto è la fotografia Home to go, dove un uomo il cui indumento sono solo delle mutande, è immortalato nell’atto di camminare, ricurvo, con un tetto tegolato, al contrario, che grava sulla schiena su cui è legato con delle corde. Eccolo, quel fardello: l’abbandono forzato della quotidianità, della vita di sempre lasciata alle spalle e un viaggio verso, forse, un posto migliore dove poter mettere nuovamente radici, le fondamenta e coronare il tutto con quel tetto che dona pace e sicurezza.

Ancora una volta gli artisti con la loro arte si schierano a favore del più debole cercando, come sempre, di sensibilizzare e cercando di sanare il deficit culturale con sana cultura, adatta a tutti dai 0 ai 100 anni cercando di sanare i conflitti morali che vede una parte del mondo “invasa” dall’altra.

In questa parte fortunata del mondo vi è anche chi è grato di farne parte, consapevole del fatto che non è proprio veritiero il detto “tutto il mondo è paese” e lotta affinché ciò possa essere realtà. Probabilmente è un’utopia, probabilmente è legge non scritta il fatto che il mondo intero debba essere necessariamente diviso in due fazioni – rispetto a qualsivoglia argomento, attenzione! – anche se di mezzo vi sono delle vite umane, come se queste possano essere classificate di serie A e di serie B. La domanda rimane la stessa da sempre: quanto vale una vita?