L’oro di Palermo coperto dal cemento: come cambiò la Conca panormita

 

La “Conca d’oro”, la culla verde che ospitava il capoluogo siciliano, non esiste più. La Palermo dei dipinti è perduta, ma per la nostra c’è ancora tempo.


Messa la nostalgia in tasca, tocca ripercorrere criticamente il c’era una volta del Capoluogo siciliano. Parliamo di una denominazione geografica assai evocativa, tutta palermitana e tutta (inesorabilmente) legata al passato, vuoi per lo splendore antico di una valle tra le montagna, vuoi per l’oro aspro – l’agrume giallo – che dominava incontrastato le terre a perdita d’occhio: “Conca d’Oro”

Questa identificazione territoriale che richiama Palermo e la Sicilia, ha goduto di larga diffusione durante l’amministrazione spagnola della Città. Il nome, contrariamente a quanti lo credono introdotto già dagli Arabi, andando indietro non risalirebbe oltre il XVI secolo, in cui lo si trova usato per la prima volta dagli scrittori per indicare la bella e ricca città di Palermo e il suo generoso territorio. “Conca d’Oro” resta oggi più adatto a vecchi riferimenti di una terra profondamente trasformata, senza esagerazioni, nel giro di mezzo secolo. 

Nei primi decenni del Novecento la sterminata distesa di quasi cento chilometri quadrati era ancora popolata quasi esclusivamente da aranci, ulivi, mandorli, yucche e palme, finché il cemento prese il sopravvento.

Che storia e che storie hanno cambiato la conca palermitana? All’inizio del Novecento, l’area verde aveva conservato la sua antica vocazione agricola. La vallata presentava infatti una distribuzione piuttosto ordinata di coltivazioni: vigneti a Pallavicino e Bonagia, uliveti a Tommaso Natale, San Lorenzo e Cardillo, agrumeti a Ciaculli, Bonagia e Falsomiele, colture erbacee a Romagnolo ed Acqua dei Corsari. Dall’alto la Conca sembrava distendersi – come descrive lo storico e cartografo tedesco Joseph Fischer – come un «enorme gabbiano» sul “tutto-porto” (dal greco παν-όρμος – Panormos). Le sue ali verdeggianti si estendevano da Est a Ovest, da Capo Mongerbino a Capo Gallo, gettandosi con la testa a Nord in direzione del mare.

È possibile ammirare nelle numerose panoramiche di Palermo, presenti in diversi libri, l’aspetto (colorato) della città: il colpo d’occhio arriva soprattutto dai dipinti primonovecenteschi. In molti altri casi si tratta di fotografie scattate dal versante di Monte Pellegrino che dà sul porto. Si potrà notare come sia ancora predominante alla metà del Novecento il verde oltre le “macchie” di cemento che affollano il centro allargato palermitano.

Albert König, “Palermo di notte” (1924) – Albert König Museum

Negli “anni della distruzione” il grande «gabbiano» verde smise di volare. Il 1960 fu il centro del cosiddetto sacco edilizio di Palermo, un periodo che avrebbe cancellato gran parte di quella ricchezza floreale, dalla Piana dei Colli a Bagheria, da Monreale a Ciaculli. Si trattò infatti di uno scempio ambientale e paesaggistico.

La colata di cemento che negli anni Sessanta e Settanta cambiò per sempre il volto di Palermo è resa evidente dai numeri: la speculazione edilizia, solo fra il 1953 ed il 1966, fece aumentare del 125 per cento la superficie edilizia urbana. Difficile quantificare esattamente quanto venne poggiato sulla Conca: dati della Ripartizione Urbanistica del Comune indicano come cifra 300 milioni di metri cubi di edifici residenziali edificati a Palermo dal dopoguerra sino agli anni Novanta.

Palermo Panorama
Sullo sfondo, la Conca d’Oro oggi (foto del 2004)

Diverse ragioni vanno affiancate alla costruzione selvaggia del Dopoguerra. L’esigenza di recuperare i circa 70 mila vani del centro storico distrutti dai bombardamenti del 1943 ebbe la precedenza, ma non è tutto qui. Palermo, divenuta capoluogo di una importante e grande regione come la Sicilia, dovette accogliere uffici e tanti nuovi abitanti. Le periferie, e il “centro allargato”, dovevano accogliere la macchina burocratica che si avviava alla gestione cittadina e regionale. Nuovi palazzi costruiti nelle periferie accolsero l’ingente massa di siciliani che trovò lavoro proprio a Palermo.

Ma a completare l’opera di devastazione e cemento furono i costruttori legati alle famiglie mafiose e la corruzione diffusa a più livelli. La distruzione della Conca d’Oro discende da quella mafia arrivata al potere e alle amministrazioni locali, a cominciare dal Comune. Per non parlare delle scandalose licenze edilizie (e abbattimenti eccellenti) concesse da – purtroppo per noi – famosi amministratori come Salvo Lima e Vito Ciancimino. I voti delle famiglie mafiose permisero a questa cancrena di mangiarsi, letteralmente, Palermo.

Di quel paesaggio non rimane che un rimpianto. La politica urbanistica scellerata ha sfigurato uno dei “fari del Mediterraneo”: il verde che giungeva fino alle pendici di Monte Pellegrino fu oggetto di spartizione per l’area degli impianti sportivi; la Piana dei Colli lasciò spazio alla vasta area lottizzata satellite che si dirama a partire da viale Strasburgo; quelle distese di agrumeti che si stagliavano oltre il centro storico e la Stazione Centrale fecero posto alla costruzione della zona di Brancaccio. Ma sono solo alcuni esempi di veri e propri scempi ambientali e artistici. La memoria però è utile, non solo per piangersi addosso, ma per ritrovare forza nelle operazioni di valorizzazione ambientale e del verde cittadino. La Palermo dei dipinti è perduta, ma per la nostra c’è ancora tempo.

In copertina, “Palermo”, Fyodor Bronnikov


 

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