Rogo alla ThyssenKrupp: giustizia non è stata fatta

 
 

Dopo 13 anni dal rogo nello stabilimento ThyssenKrupp di Torino, i tribunali tedeschi hanno concesso la semilibertà ai dirigenti dell’azienda condannati in via definitiva.


A distanza di 13 anni dall’incendio nello stabilimento ThyssenKrupp di Torino, giustizia non è stata fatta: l’ex amministratore Harald Espenhahn e il dirigente Gerard Priegnitz, in quegli anni responsabili dello stabilimento, hanno ottenuto la semilibertà senza aver scontato la condanna per omicidio colposo.

Quella notte, il 6 dicembre 2007, scoppiò un incendio alla linea 5 e tutto il personale dello stabilimento accorse per tentare di spegnere il fuoco; i tentativi di domare le fiamme furono inutili. L’incendio fu seguito dalla fuoriuscita di olio ad alta pressione nebulizzato che provocò l’esplosione di una nube che travolse sette operai causandone la morte, alcuni dopo giorni di agonia. Le testimonianze di Antonio Boccuzzi, l’unico superstite del rogo, e di altri operai, hanno portato alla luce gravi inadempienze da parte dell’azienda che mostrava ormai poco interesse per uno stabilimento in dismissione: tra queste risultarono evidenti il malfunzionamento dei sistemi di sicurezza (dovuto alla riduzione delle spese per le misure antinfortunistiche) e la violazione della normativa sull’orario di lavoro, poiché gli operai coinvolti nel rogo avevano superato le otto ore lavorative stabilite per legge.

La procura di Torino che ha condotto le indagini ha individuato tra i responsabili dell’accaduto sei persone tra manager e dirigenti dello stabilimento: Harald Espenhahn, Marco Pucci, Gerald Priegnitz, Daniele Moroni, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri. Il lungo processo iniziato nel 2008 si è concluso nel 2016 con sei condanne in definitiva per omicidio colposo, omissioni di cautele antinfortunistiche e incendio colposo aggravato. In particolare, Espenhahn e Priegnitz, ritenuti dalla magistratura italiana responsabili per il loro ruolo apicale nell’azienda, sono stati condannati rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 10 mesi di reclusione.

Tuttavia, la conclusione del processo e le condanne dei responsabili non hanno portato all’epilogo sperato. Al contrario, per le famiglie delle vittime è iniziata un’odissea costellata da interminabili procedimenti e ricorsi che, da ormai 13 anni, hanno reso quella condanna priva di valore. Diversamente da come è accaduto per i responsabili italiani, che hanno iniziato a scontare la pena immediatamente dopo l’emissione della sentenza, i due manager tedeschi, rientrati in Germania, hanno ottenuto un diverso trattamento: dopo l’emissione del mandato di arresto europeo da parte dell’Italia, infatti, la magistratura tedesca ha ritenuto necessario verificare il corretto svolgimento del procedimento giudiziario. Inoltre, in base alle norme di cooperazione giudiziaria tra l’Italia e la Germania, era già previsto che i due manager avrebbero potuto scontare la condanna nel proprio Paese per la durata massima prevista dal Codice penale tedesco che, nel caso di omicidio colposo, risulta essere cinque anni.

L’iter di richiesta, trasmissione e traduzione di tutti gli atti del processo è durato circa tre anni, procedimento che si è concluso dopo diversi solleciti da parte delle autorità italiane: solo nel febbraio del 2019 (dodici anni dopo l’incendio) il tribunale distrettuale di Essen ha dichiarato ammissibile l’esecuzione delle sentenze emesse in Italia, stabilendo che non vi è alcun motivo ostativo o procedurale all’esecuzione di tali condanne, concludendo dunque che i due manager avrebbero dovuto scontare 5 anni di reclusione per i reati commessi. Tuttavia, neanche questa pronuncia si è tradotta con l’immediato arresto di Espenhahn e Priegnitz: questi ultimi, infatti, hanno deciso di fare ricorso al Tribunale regionale superiore di Hamm, ricorso infine rigettato il 4 febbraio di quest’anno. Secondo le dichiarazioni del portavoce del tribunale di Hamm, l’arresto dei due manager sarebbe dovuto avvenire le prime settimane di giugno.

Il rigetto del ricorso ha confermato la validità del processo svolto in Italia e l’attesa della carcerazione ha dato alle famiglie delle vittime la speranza di avere finalmente giustizia. Purtroppo, per l’ennesima volta la speranza di giustizia è svanita a causa dell’ultimo escamotage messo in atto dai due manager: questi hanno fatto richiesta dell’Offener Vollugz, cioè la semilibertà. La concessione della semilibertà è stata annunciata dalla procuratrice di Essen, Annette Milk, durante un’intervista all’emittente Radio Colonia, in cui ha affermato che i due manager «saranno detenuti in un penitenziario, ma potranno uscire ogni giorno per lavorare e dovranno tornare la sera». Questa possibilità è stata concessa poiché non si ritiene che vi sia pericolo di fuga, di reiterazione del reato e assenza di recidiva.

La rabbia e il dolore dei parenti delle vittime non sono quantificabili, soprattutto dopo 13 anni, costellati da attese e rinvii. «Devono ancora inventare un aggettivo per esprimere le sensazioni che sto provando ora. La notizia è inattesa quanto vergognosa», commenta Antonio Boccuzzi.

Un altro fattore che è stato posto in evidenza in questi anni è l’utilizzo di due pesi e due misure nei confronti dei condannati nel 2016. A tal proposito Massimiliano Quirico, direttore di “Sicurezza e Lavoro” afferma: «In Italia, i dirigenti “minori” sono stati arrestati subito dopo la sentenza e hanno scontato un normale regime carcerario, almeno inizialmente; in Germania, i massimi vertici dell’azienda iniziano a pagare per le proprie responsabilità oltre quattro anni dopo la sentenza della Cassazione italiana. E non scontano neanche un normale periodo di detenzione».

L’utilizzo di due pesi e misure e l’interminabile iter processuale verranno discussi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel novembre del 2019 ha avviato un procedimento nei confronti della Germania e dell’Italia per la mancata esecuzione della sentenza di condanna dei due manager tedeschi emessa nel 2016 che, al contrario di quanto avvenuto per gli imputati italiani, non hanno scontato la pena dopo 13 anni dalla morte dei sette operai nello stabilimento di Torino. A rivolgersi alla corte di Strasburgo sono stati proprio i familiari delle vittime che accusano il governo tedesco e quello italiano di aver violato i loro diritti.

«I giudici della Cedu chiedono oggi conto al governo tedesco e a quello italiano dell’incredibile mancata esecuzione della sentenza emessa dai tribunali penali italiani che, nel 2016, hanno condannato rispettivamente a oltre 9 anni Herald Espenhahn e a oltre 6 anni Gerald Priegnitz», afferma l’avvocato Anton Giulio Lana, legale dei familiari delle vittime.

Compito della Corte sarà quello di stabilire se i due Paesi e le rispettive autorità hanno cooperato in modo efficiente nella trasmissione degli atti e se sono state messe in atto misure di carattere politico e diplomatico che hanno rinviato l’esecuzione della condanna nei confronti degli imputati tedeschi. Si discuterà inoltre, se l’Italia avrebbe dovuto avviare una procedura di infrazione dinanzi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e in tal caso capire le motivazioni del mancato avvio di tale procedura. E infine, la Germania dovrà chiarire come mai non ha eseguito il mandato di arresto europeo presentato dalla Procura della Corte d’appello di Torino alla fine del processo e se in futuro ha intenzione di eseguire tale condanna sul territorio tedesco.