La presunta dittatura del politicamente corretto

Perché le reazioni di molte aziende e di soggetti di peso dell’industria culturale alle proteste antirazziste non sono la spia di una fantomatica dittatura del politicamente corretto.


In seguito alle proteste per la barbara uccisione di George Floyd negli Stati Uniti, le reazioni dell’opinione pubblica e della società civile hanno dimostrato, almeno ad un livello superficiale, un’apertura a molte delle istanze del movimento Black Lives Matter e in generale all’antirazzismo.

Soprattutto nel contesto americano, segnato da un passato di discriminazione razziale nei confronti degli afroamericani e degli afrodiscendenti e da un presente in cui il razzismo strutturale è perfettamente visibile alla luce delle statistiche e degli innumerevoli episodi di cronaca, l’uso eccessivo e ingiustificato della violenza nei confronti dei neri è (finalmente) diventato un tema scottante dell’agenda politica del paese.

Le proteste antirazziste partite dagli Stati Uniti hanno raccolto consensi in tutto il pianeta, sia da parte della comunità nera che vive in altre aree geografiche (dall’Africa al Medio oriente, dall’America latina all’Europa occidentale) sia da parte di altri soggetti che hanno avvertito l’urgenza di manifestare solidarietà nei confronti delle vittime del razzismo.

Le differenze da un contesto all’altro non sono secondarie, tanto quanto le modalità della protesta: il dibattito sull’abbattimento delle statue è solo uno tra gli esempi possibili. Basti pensare che, all’apice delle proteste, nella città di Seattle la zona di Capitol Hill è stata occupata da gruppi di manifestanti, dopo giornate di scontri con le forze dell’ordine talmente intensi da spingere la polizia ad abbandonare quel distretto.

Tuttavia, ciò che ha fatto più scalpore non sono state le rivendicazioni dei gruppi organizzati. In Italia, l’eco della discussione sulla riforma della polizia statunitense è rimasto lontano dal mainstream. Il dibattito sui social riguarda una serie di gesti simbolici rivendicati da alcune importanti aziende e soggetti di peso dell’industria culturale, nonché alcune petizioni online su piattaforme come change.org.

La linea sottile che collega questi fatti è sia l’antirazzismo sia ciò che molti commentatori, giornalisti e semplici utenti di twitter, hanno definito la “dittatura del politicamente corretto”.

Partiamo dai fatti. L’elenco degli episodi è abbastanza lungo, dunque citeremo solo quelli che hanno suscitato le discussioni più animate. Il primo è quello della HBO, che ha temporaneamente eliminato il film “Via col vento dal suo catalogo per 24 ore, per poi aggiungere un disclaimer e un video contenente una discussione sul contesto storico da cui il film è nato. La ragione, come affermato da un portavoce della HBO, è che la pellicola «raffigura alcuni pregiudizi etnici e razziali che erano, disgraziatamente, dati per assodati nella società americana (…) mantenere questo titolo senza una spiegazione e una denuncia di quelle descrizioni sarebbe stato irresponsabile».

L’aspetto interessante della vicenda è duplice: da un lato, nessuno dei critici si è interrogato seriamente sulla triste attualità di quei pregiudizi etnici e razziali, dall’altro molte testate, affamate di click, avevano omesso l’avverbio “temporaneamente” dall’annuncio di HBO, diffondendo di fatto una notizia falsa.

Ma andiamo avanti. Un altro episodio che vale la pena citare è quello che riguarda “I Simpson“, la celebre sitcom animata che racconta con una forte vena satirica i vizi della società americana attraverso le vicende di una tipica famiglia di Springfield. I produttori della serie TV hanno annunciato che i personaggi non-bianchi non saranno più doppiati da attori bianchi. Il personaggio più bersagliato dalle critiche è sicuramente Apu, proprietario del celebre mini market originario dell’India, e da tempo (ben più di un mese) accusato di riprodurre stereotipi razzisti sulle persone originarie del subcontinente indiano.

Gli altri episodi degni di nota sono quelli che riguardano le multinazionali (da Coca Cola a North Face, da Starbucks a Microsoft) che hanno ritirato la pubblicità da Facebook, accusando Mark Zuckerberg di non avere fatto abbastanza per combattere il razzismo sul più grande social network del mondo di cui è proprietario, e quelli che hanno come protagonisti alcuni giganti della cosmetica.

L’Oréal ha deciso di eliminare le parole “bianco”, “sbiancante” e “chiaro” dal suo catalogo di prodotti, mentre Johnson&Johnson ha annunciato il ritiro dei prodotti sbiancanti per la pelle in Asia e Medio Oriente. La logica alla base è la stessa: il mercato di queste multinazionali della cosmetica è globale e da tempo molte persone non-bianche utilizzano quei prodotti per sbiancare la pelle, interiorizzando di fatto l’idea secondo cui “bianco è bello”.

Potremmo citare episodi più vicini a noi, dal ritiro dei “moretti” da parte della svizzera Dubler alla petizione per cambiare il nome della Negerhuette, il celebre rifugio nelle Dolomiti, che a detta di alcuni sarebbe razzista per la presenza al suo interno della parola “Neger”. Si è poi scoperto che in realtà il nome della capanna deriva da “Niger” (nero) e non da “Neger” (negro), perché nero è il legno con cui è stato costruito quel rifugio. Ma tutto questo, in fondo, non ha molta importanza.

Già, perché l’equivoco di fondo di tutti i prodi cavalieri della lotta contro il “politicamente corretto” è che queste decisioni, prese autonomamente da parte dei soggetti interessati o in seguito a lamentele e proteste, non sono altro che gesti simbolici. Anche quando comportano perdite economiche, non parliamo certo di cifre che compromettono il bilancio aziendale.

In fondo, si tratta della stessa logica delle “quote rosa” nei posti di potere: nessuno può pretendere seriamente di risolvere una volta per tutte il problema della discriminazione femminile aggiungendo una percentuale di donne nei ministeri o nei CDA delle multinazionali. Così come utilizzare gli articoli determinativi o i nomi comuni al femminile per riferirsi a persone che svolgono cariche un tempo riservate agli uomini risolve il problema della disuguaglianza: una volta che cambiamo “il ministro” con “la ministra”, resterebbe comunque il problema ben più serio delle condizioni materiali di chi ministra non è, da “la disoccupata” a “la precaria”, giusto per fare due esempi.

Lo stesso identico discorso vale per i gesti di solidarietà nei confronti delle proteste antirazziste. È chiaro che non basta scrivere “Black Lives Matter” sull’asfalto per risolvere il problema globale del razzismo, a meno che non si ritenga che risolverlo equivalga a mettersi a posto con la propria coscienza.

politicamente corretto

Molti dei critici del “politicamente corretto“, tra cui si annoverano giornalisti (pardon, ex giornalisti) del calibro di Vittorio Feltri, la cui massima aspirazione è esprimersi liberamente attraverso titoli offensivi contro i meridionali, i neri, gli islamici e la comunità LGBT sulle colonne del proprio giornale, ignorano o fingono di ignorare che il termine “politically correct” è nato tra i gruppi dell’estrema sinistra statunitense diversi decenni fa, per prendersi gioco di tutti quei soggetti appartenenti agli stessi gruppi politici che propugnavano un’ortodossia esagerata.

Successivamente, il termine è diventato un codice di condotta rivendicato dai liberal statunitensi per difendere il multiculturalismo e portare avanti una condotta non offensiva nei confronti della minoranze. In nessuno dei due casi si trattava di gesti particolarmente rivoluzionari: la preoccupazione dei liberal, al di là delle teorie sociologiche alla base del loro discorso, era quella di sostituire a termini offensivi come “negro”, “checca” o “zingaro” termini più neutri come “nero”, “gay”, “rom” o “sinti” (a seconda dell’etnia).

Tutto questo è diventato un problema per una fetta dell’opinione pubblica (prima statunitense, poi globale), a partire dagli anni novanta: il termine “politicamente corretto” è stato da allora utilizzato per denunciare il presunto puritanesimo di chi non vuole offendere le minoranze. Come se la libertà di espressione passasse dalla licenza di dire “negro”, “frocio” o “handicappato”. L’aspetto inquietante è che proprio inventando e cavalcando questo nemico immaginario del “politicamente corretto”, personaggi come Trump, Bolsonaro e Salvini hanno fatto campagna elettorale.

Resta da capire perché questa serie di accorgimenti “politically correct” nei confronti delle minoranze costituisca una “dittatura”, se nonostante questa “dittatura” gli episodi di intolleranza siano ancora così tremendamente diffusi, anche e soprattutto in Italia, dove la difesa delle minoranze non è mai stato oggetto di discussione autentica da parte dei legislatori e le discriminazioni sulla base del colore della pelle, del sesso e della religione non sono combattute con la stessa forza con cui alcuni denunciano il “politicamente corretto“.

Forse non è un caso se questi ultimi non parlino mai di come risolvere i problemi reali (razzismo, sessismo, islamofobia) che si cercano di affrontare simbolicamente al livello del discorso pubblico, evitando di offendere le persone con epiteti discriminatori. Probabilmente molti di loro non credono nemmeno che si tratti di problemi seri che vanno risolti e che in fondo il vantaggio derivante dall’essere bianchi sia giustificato. Altrimenti non si spiega il clamore prodotto dei gesti simbolici di cui abbiamo appena parlato.