Easy Rider: la libertà tra motociclette, droghe e rivoluzione culturale

 

Easy Rider è un viaggio in motocicletta per cambiare l’America, la vita dei protagonisti, gli occhi di chi guarda o semplicemente una bellissima e potente illusione.


Prodotto da Peter Fonda e diretto da Dennis Hopper, “Easy Rider” (1969) racconta tramite l’archetipo del viaggio, la storia in chiave autopoietica di due motociclisti (interpretati da Fonda e Hopper) che viaggiano attraverso il sud-ovest americano e il sud con l’obiettivo di raggiungere la libertà. Acquistano delle moto con il guadagno ottenuto da un movimento di cocaina e ci indicano la lettura della narrazione da una prospettiva inedita e simbolica. Non a caso i protagonisti viaggiano da ovest verso est e non il contrario, come da consuetudine nelle narrazioni.

Easy Rider non è una semplice storia, ma un processo di presa di coscienza che porta due Hippy ad attraversare l’America senza trovarla in sella ai loro chopper. Le motociclette utilizzate in Easy Rider non sono state semplicemente ordinate ad uno showroom e ostentate davanti alla telecamera. Erano realizzate a mano, ma non solo: le motociclette hanno una funzione simbolica; non è un caso che la motocicletta del protagonista sia dipinta a stelle e strisce e che porti il nome di “Captain America”

Questo film è una scoperta, una critica al sistema, uno specchio di una società in cui non tutti riescono a trovare il proprio posto e, cercando il proprio spazio nel mondo, si trovano ad essere i Losers, gli outsider. Eppure si tratta solamente di desiderare un mondo culturale e sociale diverso dal “modello imposto”.

I protagonisti attraversano l’america mentalmente, emotivamente e fisicamente, incontrando ad un certo punto un avvocato perduto nell’alcool (Jack Nicholson): lo iniziano alla marijuana passando una notte davanti un falò, divertendosi nell’immensità della natura e allargando le braccia come uccelli, portando all’attenzione dello spettatore quel mood tipico delle comuni hippy.

Il sapore mitico del film si accosta al lirismo della fotografia che, grezza e suadente, ci regala una cartolina che narra l’avventura. Perfino la scena di LSD e sesso al cimitero rivela il cambiamento sia nello sguardo dello spettatore, forzato a chiedersi se quella è o meno pornografia, sia in quello della macchina da presa, che scruta lì dove la mente è troppo offuscata, trascinando di fatto lo spettatore ad assistere a qualcosa che non era mai stato rappresentato sul grande schermo.

Easy Rider è infatti il primo film che mostra possessione e consumo di droga, dando per la prima volta libertà di azione e pensiero, staccati dal cordone ombelicale con cui Hollywood stava per suicidarsi. Un poco come accadde a “Il Laureato”, Easy Rider trova la sua importanza nell’essere testimonianza e reperto di un’epoca in cui i tabù vengono descritti in modo esplicito sempre più di frequente, lasciando da parte i perbenismi e i falsi moralismi tipici di Hollywood e dando vita alla cosiddetta “New Hollywood” o “Post Classical Hollywood”.

Il film, fortemente influenzato dalla nouvelle vague francese, delinea la controcultura che apre la strada ad una nuova generazione di videomaker e registi. La cristallizzazione di un disagio sociale (qualche mese prima di Woodstock, il film viene presentato a Cannes) colloca Easy Rider in testa alla breve golden age del “road movie”, che durerà più o meno cinque anni e aveva già prodotto due anni prima film come “Hells angels on wheels” (anche qui troviamo Jack Nicholson).

Memorabile ed estremamente significativa la scena in cui i protagonisti passano da una strada che costeggia un campo in cui afroamericani lavorano senza sosta e sotto il sole: il mito del sogno americano è una balla mostrata sulle note di “If Six Was Nine” di Jimi Hendrix, svegliando di colpo spettatore e protagonisti che fino a quel momento si erano lasciati cullare da un viaggio accompagnato dal tappeto extradiegetico di “Don’t Bogart Me” dei Fraternity of Man.

Lo shock audiovisivo è solo una parte del gioco alla sottrazione con cui Hopper narra la tragedia a cui nessuno e nulla sopravviverà. Da notare anche come ogni pezzo della colonna sonora riesca in pieno a soddisfare le necessità narrative, sottolinei particolari e riesca a regalarci un esilio momentaneo dal tempo reale.

Attenzione, spoiler! La morte dei protagonisti capelloni ricorda quasi lo schema con cui Shakespeare ci propone la morte di Amleto in cui il protagonista, dopo tensioni fisiche ed emotive profonde, muore in un duello all’ultimo sangue con la società colma di ipocrisie e menzogne che lo ha generato e reso ostile.

Con la morte violenta, non per cause naturali, si vuole probabilmente sottolineare l’inevitabile fine di chi si oppone al sistema costituito, di chi suscita paure e timori nelle vecchie generazioni, un prezzo da pagare per aver cercato un posto che non è stato assegnato, ma conquistato tramite la ricerca della consapevolezza.


 
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