Il colonialismo italiano, storia di fantasmi e di rimozioni

Nella storia dell’Impero italiano in Africa ci sono pagine difficili da raccontare ed è nel nesso tra violenza coloniale e razzismo che si nasconde la loro contemporaneità.


Nel campo di battaglia simbolico della storia, nel presente che fa i conti con il passato, si incontrano dappertutto rimozioni e riscritture, dettate ora da interessi particolari, ora da immagini e tracce difficili di digerire. La scena del tempo oggi è quella di un passato contestato e di un presente confuso, in cui la coscienza antirazzista trova nel suo cammino un ostacolo gigantesco, ovvero la persistenza di un passato idealizzato che proprio attraverso la rimozione si riproduce quotidianamente.

Un passato che incontriamo ogni giorno e che molto spesso non vediamo. È nei personaggi a cui sono state intitolate strade, statue e piazze; è nelle omissioni nel racconto della storia ufficiale; è anche in tutti quei comportamenti apparentemente normali ma che in realtà nascondono qualcosa di patologico, qualcosa che affonda le radici, per l’appunto, in un passato che per decenni è stato in gran parte tenuto nascosto all’opinione pubblica.

Quando in Italia si parla di colonialismo succede spesso che nel confronto con gli altri paesi occidentali si tenda a minimizzare gli effetti che l’opera di colonizzazione ha prodotto in quello che per alcuni anni è stato l’impero italiano. Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia: in ciascuno di questi paesi, tuttora attraversati da conflitti politici che hanno legami complessi con il passato coloniale dell’Italia, è ancora vivo il ricordo del dominio e della sottomissione delle popolazioni autoctone.

Iniziamo dall’Eritrea, la prima destinazione dell’avventura coloniale italiana. Il contesto è quello della spartizione dell’Africa tra le grandi potenze europee, a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’Italia, che della grande potenza aveva solo l’aspirazione, procede alla conquista dell’Eritrea dopo l’acquisizione della baia di Assab, seguita a una lunga controversia con l’Egitto.

Per comprendere lo spirito di quell’avventura, basti questa dichiarazione di Francesco Crispi del 7 maggio 1885 alla Camera: «Qual è il nostro scopo? Uno solo: affermare il nome dell’Italia nelle regioni africane e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone; ebbene, questo cannone tuonerà al momento opportuno». 

Emblema della “missione civilizzatrice” dell’Italia in Eritrea è il carcere di Nocra, una delle 7 prigioni costruite dal Regno italiano nella colonia, meta della rieducazione di tutti coloro che, rifiutando la colonizzazione, non erano stati fucilati o impiccati dopo processi sommari. Tra le poche testimonianze esistenti sulla vita in quel carcere c’è quella del capitano della marina militare Eugenio Finzi, risalente al 1902: «I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto, di altre malattie.

Non un medico per curarli, 30 centesimi per loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo». La struttura penitenziaria rimane in funzione dal 1887 al 1941.

Un altro luogo della storia coloniale italiana che vale la pena citare è la Libia. Il 26 settembre 1911, l’allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti invia un ultimatum alla Turchia che equivale a una dichiarazione di guerra; pochi giorni dopo l’esercito italiano sbarca in territorio libico. La strategia è semplice: sostituire le truppe turche con quelle italiane, certi che di un’alleanza tra le prime e la popolazione araba del luogo non vi siano le basi. La realtà dimostra il contrario e ha inizio uno scontro militare violento tra gli opposti schieramenti, italiani da un lato, turchi e arabi dall’altro; questi ultimi, tra le altre cose, accusati di tradimento (sebbene non vi sia stato alcun patto con il Regno d’Italia).

Uno degli episodi più efferati di quel conflitto è senza dubbio quello di Sciara Sciat: all’uccisione di almeno 500 soldati italiani, segue la rappresaglia. Le fonti libiche parlano di 4 mila persone uccise, in una vera e propria caccia all’arabo. Il simbolo di quella spirale di violenza è la forca eretta in Piazza del Pane a Tripoli, alla quale vengono appesi 14 arabi per “dare l’esempio” a tutti gli altri. A quell’episodio segue la deportazione di un numero compreso tra i 400 e i 4 mila arabi in Italia, su esplicita richiesta di Giolitti.

L’aspetto più interessante è la descrizione che ne danno alcuni tra i più ferventi nazionalisti.

Vale la pena citare in particolare Ezio Maria Gray, giornalista, politico, consigliere del Regno durante l’ultima legislatura del regime fascista e futuro vicesegretario del MSI dopo la caduta del regime. Gray, che ha partecipato alla caccia all’arabo per le vie di Tripoli, sostiene nel testo “La bella guerra” del 1912 che le truppe italiane siano state fin troppo morbide: «Un pugno fermo? Non diciamolo neppure per pudore! Il sentimentalismo, che è una malattia tipica e torpente della nostra razza, inquinò anche in quel giorno la nostra difesa. […] Fu sparso solo il sangue indispensabile, e neppure quello necessario, mentre il tradimento rinnovabile avrebbe imposto il massimo rigore».

Le ostilità si interrompono solo nel novembre del 1914, in seguito alla cosiddetta “grande rivolta araba” che costringe le truppe italiane alla ritirata. Segue la carneficina della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo, durante il quale la politica di colonizzazione riprende slancio.

In primo luogo in Somalia, di cui già nel 1888 alcune aree sono sotto protettorato italiano. Il nuovo governatore Cesare Maria de Vecchi (tra gli organizzatori della marcia su Roma), giunto in Somalia l’8 dicembre 1923, non perde tempo: già nel gennaio 1924 ordina il disarmo di tutti gli abitanti della Somalia meridionale e invade il territorio dei Galgial Bersane e poi quello dei Badi Addo, incendiando e bombardando villaggi, razziando il bestiame e passando per le armi decine di innocenti.

Quello è l’inizio di una politica del terrore che dura due anni, con perdite sia tra le truppe italiane sia soprattutto tra i somali. Segue la sottomissione di buona parte della popolazione somala: dietro i contratti di lavoro del 1929 ed etichette come quelle di “schiavismo bianco”, si cela una massa di schiavi costretti ai lavori forzati che torneranno formalmente liberi solo dopo l’occupazione britannica dell’isola nel 1941, durante la seconda guerra mondiale.

Nello stesso periodo, un altro tra i più celebri militari del regime fascista inizia a costruire la sua reputazione di “macellaio del Fezzan”: parliamo di Rodolfo Graziani. Futuro vicegovernatore della Cirenaica e della Tripolitania, vicerè d’Etiopia e presidente onorario del MSI dopo la caduta del regime, tra il 1922 e il 1932 è insieme a Badoglio il principale stratega della riconquista della Libia.

Tra i suoi gesti più efferati c’è sicuramente la deportazione di circa 100 mila libici, tra il luglio e l’ottobre del 1930; di questi, sarebbero tornati a casa tre anni dopo meno di 60 mila. Lo scopo è quello di indebolire la base del consenso di Omar al-Mukhtàr, il leader militare della guerriglia in Cirenaica, la cui storia sarà raccontata a distanza di tempo nel film “Il leone del deserto”, sottoposto per decenni a censura in quanto ritenuto “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”.

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Omar al-Mukhtar

Un altro episodio per cui Graziani è tristemente noto è il suo contributo all’invasione dell’Etiopia, stato sovrano e membro delle società delle Nazioni, a partire dal 3 ottobre 1935. È lui a chiedere e ottenere da Mussolini “libertà d’azione per l’uso di gas asfissianti” e a sganciare in soli sette giorni ben 125 bombe caricate a iprite e fosgene. Sul fronte Nord, lo stesso fa il maresciallo Badoglio. Gli attacchi con i gas asfissianti continuano fino ad aprile e vengono interrotti solo in seguito alle proteste internazionali. 

L’ultimo episodio che va citato è il massacro di Debrà Libanòs. Dopo l’attentato a Graziani durante una cerimonia ad Addis Abeba (Etiopia) il 19 febbraio 1937, segue una rappresaglia (di cui tuttora non si conosce il numero delle vittime) e il cui episodio più efferato è per l’appunto l’uccisione di un numero compreso tra 1400 e 2 mila tra monaci, seminaristi e suore cristiano-copti. È Graziani in persona a ordinare di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente”. Vengono uccisi persino giovanissimi, indovini e cantastorie, colpevoli di avere predetto la fine del regime.

Questo triste elenco è solo una parte del resoconto che troviamo nel celebre testo “Italiani brava gente” dello storico Angelo del Boca, massimo esperto di storia del colonialismo italiano e primo tra gli altri ad avviare un dibattito pubblico sulla questione a partire dalla seconda metà degli anni settanta.

Nel titolo del libro non c’è solo un luogo comune, quello secondo cui gli italiani sarebbero per natura bonari e rispettosi anche nel ruolo di colonizzatori, ma un’intuizione storica: ciascuno degli episodi che abbiamo elencato, infatti, è stato nascosto proprio in virtù di quella auto rappresentazione idealizzata del popolo italiano. Come se l’essere nati in Italia ci avesse in fondo reso incapaci di esercitare una violenza razzista e colonialista al pari degli altri paesi colonialisti europei. La storia dimostra il contrario. 

E se consideriamo non solo la brillante carriera di alcuni dei personaggi che abbiamo elencato ma anche il fatto che nessuno di loro sia stato accusato di crimini di guerra in seguito all’amnistia Togliatti, c’è da chiedersi quanto effettivamente le istituzioni abbiano fatto i conti con quella violenza di cui abbiamo fatto solo un breve resoconto. Basti pensare che, ancora oggi, i nomi di luoghi e persone rappresentativi di quella fase storica trovano posto nella toponomastica del nostro paese.

Inoltre, altri luoghi che fanno parte del nostro spazio urbano quotidiano sono stati in passato il palcoscenico di eventi che oggi sarebbero unanimemente considerati disumani. Nell’agosto del 2012, a Rodolfo Graziani è stato persino dedicato un sacrario nella sua città natale (Affile). Il sindaco, che al momento dell’inaugurazione della statua indicò Graziani come “un esempio per i giovani”, è stato successivamente condannato nel 2017 per apologia di fascismo

Episodi del genere suggeriscono una riflessione in fondo banale: di che cosa parliamo quando parliamo di contesto storico?

Quando nel 1913, durante la guerra di aggressione della Libia, il generale siciliano Giovanni Ameglio non si faceva scrupoli a usare la forca come strumento di intimidazione per stroncare la resistenza locale, c’era chi, come Filippo Turati, denunciava pubblicamente quelle esecuzioni sommarie durante una seduta parlamentare: «Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande missione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col rispettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa».

Nel 2020, di fronte a episodi come quelli che da mesi hanno dato vita alle proteste negli Stati Uniti e nel resto del mondo, forse è il caso di dire una cosa molto semplice: il contesto, in fondo, è un concetto parziale e fumoso. Nello stesso spazio e nello stesso tempo, si può stare da una parte o dall’altra.