Torna Dacia Maraini, raccontando come sempre la forza delle donne

Due amiche, un solo uomo, la peste. Tra ricordi e accettazione, si mostra, come sempre, nel nuovo libro di Dacia Maraini, la forza delle donne.


Chi dice donna, dice Dacia: non è mai stato così semplice ridefinire un detto dallo stampo misogino e sessista, offrendo una chiave di lettura diversa, una luce nuova. Quella  luce che le protagoniste, tutte al femminile, sprigionano tra le pagine dei romanzi dell’autrice Dacia Maraini: “danno”, non più per pericolo, ma presente indicativo del verbo dare o, per meglio dire, donare.

Sì, donare forse è questa l’espressione che più si addice alle tante donne che la scrittrice racconta, aprendo un varco sulle loro vite, spesso troppo difficili, e facendoci entrare con fare voyeuristico, spettatori inermi dinanzi a delle vicissitudini che vorremmo poter fermare. Vicissitudini che raccontano, spesso e volentieri, la vita quotidiana ove la donna vive quasi sempre all’erta, diffidando quasi anche da coloro nelle cui vene scorre lo stesso sangue.

Immergendoci tra le righe dei suoi romanzi – editi da Rizzoli, la casa editrice di sempre – troviamo, per esempio, la giovane nobildonna Marianna Ucria, sordomuta e violentata dallo zio; Colomba la bambina sparita; Isolina, la giovane donna fatta a pezzi e trovata nell’Adige, le protagoniste del suo romanzo “L’amore rubato”, il cui titolo è già di per sé esplicativo.

Può cambiare il contesto, può cambiare l’epoca, la data o il giorno ma quasi sempre le storie di Dacia Maraini sembrano seguire un file rouge, un filo conduttore che mostra la dualità della donna, qualunque età lei abbia, nella sua forza e nel suo essere vittima di un sistema sbagliato, patriarcale che la vede oggetto di possesso, oggetto passivo, oggetto non pensante e senza facoltà di libero arbitrio: un essere non-vivente in balia delle scelte, voglie e follie altrui.

Ben chiaro, dunque, come Dacia Maraini faccia del tema femminile e delle donne il suo cavallo di battaglia. Come sopra detto è evidente la dualità che caratterizza le sue protagoniste ed è giusto, quindi, focalizzarsi anche sull’altro elemento determinante e non trascurabile già citato e non indagato: la forza.

Quella forza che nulla ha a che vedere con il “mondo maschile”, una forza diversa che non sentono il bisogno di imporre: parliamo della forza che «stava nella sua cocciuta e meravigliosa passione per l’indipendenza da ogni legame», quella di Chiara D’Assisi raccontata nel libro “Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza”, la forza atta alla autorealizzazione personale come forma di riscatto in “Donna in guerra” sino ad arrivare alla forza dell’amicizia raccontata nel suo ultimo libro “Trio. Storia di due amiche, un uomo e la peste di Messina”.

Sicuramente non è da considerarsi un caso la tempestiva pubblicazione del libro, previa stesura durante il periodo più buio del 2020, non è da considerarsi un caso la silente ma palese analogia tra la peste di Messina del 1743 con al seguito la sua ecatombe e il nuovo coronavirus che ha piegato il mondo intero. Analogie, dunque, tra ieri e oggi ove la quarantena è una prassi obbligatoria ovviamente vissuta diversamente, con diversi mezzi a disposizione.

Se dunque la nostra reclusione forzata è stata alleggerita da videochiamate, indigestioni di serie tv al limite del binge watching, ma anche riscoperta di hobby sopiti in attesa di aggiornamenti, decreti e conferenze stampa, quella del 1743 non era altro che il rifugiarsi nelle campagne e aspettare “notizie volanti” dalla città, sperando fossero confortanti. Banale a dirsi, chiaramente, ma il tempo lo si trascorreva diversamente e l’unico mezzo di comunicazione tra amici e parenti altro non erano che le lettere.

“Trio” difatti è un romanzo epistolare ambientato nella Sicilia del 1743 tra Messina, Palermo, Castanea e Casteldaccia. Protagoniste due donne, Agata e Annuzza, unite da un sentimento di pura amicizia  «nata nei giardini palermitani, quando portavamo le gonnelline corte» e dalla passione per la lettura. A unirle, però, non vi sono solo dolci ricordi che affondano le radici in un rapporto dagli esordi fanciulleschi; non vi è solo l’amore del rapporto amicale: tra loro, difatti, si è insinuato l’amore verso la stessa persona, un uomo, il marito di Agata, Girolamo. Amore che parimenti, per entrambe, lui prova e ricambia.

Non importa se è sposato con Agata, non importa il fatto che i due coniugi abbiano anche una bambina, Mariannina: Girolamo non abbandona il desiderio che prova anche per Annuzza. Come una eterna e triste partita di ping pong l’uomo si destreggia tra le due amiche, non riuscendo a capire dove il cuore vuole posarsi davvero, causando la tristezza prima dell’una e poi dell’altra nel momento dell’abbandono, seppur preventivato.

È questo quello che emerge dalle loro lettere con cui si aggiornano puntualmente, con cadenza quasi ipnotica: tra ricordi di quando frequentavano il convento, amici comuni, preoccupazioni, dolore e morte legati alla peste e letture di alto calibro, trova spazio quel velo di malinconia che avvolge questo strano, consapevole e rassegnato triangolo, o meglio trio, come il titolo del romanzo suggerisce.

Ma ciò che sicuramente, tuttavia, risalta nonostante tutto, è la consapevolezza della forza della loro amicizia: due amiche, quasi simbiotiche, potranno provare tristezza a causa di quell’uomo così indeciso ma non vi sarà mai gelosia – cosa per cui lo stesso Girolamo si interroga – perché «come spiegargli che l’amicizia, quella vera, supera la gelosia e fiorisce anche sulle pietre con la forza di una bella e robusta piantina, magari storterella ma con radici lunghissime?».

Parlando di forza, dunque, l’autrice l’ha voluta sottrarre al secondario personaggio maschile per poter ancora una volta riversarla sulle due donne: una forza, quella dell’amicizia, da cui l’uomo è escluso. Una forza che ha dato vita a un accomodamento per il bene di tutti e per la salvaguardia di un sentimento più forte dell’amore, basato su una solidarietà che solo due donne possono avere. Non nemiche, non avversarie ma complici all’interno di questa relazione sui generis in cui l’oggetto sembra esser diventato Girolamo.

Tuttavia, il romanzo potrebbe prestarsi a una doppia chiave di lettura: perché mai due donne  dovrebbero legittimare e accettare il fatto che un uomo possa liberamente dare un colpo al cerchio e l’altro alla botte, perché mai dovrebbero accettare il suo essere inquieto, perché mai dovrebbero assecondare la sua voglia di sentirsi libero e vivo per mezzo di questa “divisione sentimentale” a discapito, inevitabilmente, del loro umore, dei loro sentimenti?  Potrebbero le due donne far leva sulla loro amicizia, pari all’amore, e decidere di estromettere dalla loro vita un uomo indeciso, non tra un pane e una focaccia, ma tra due esseri umani, e smettere di “sacrificarsi” per esso?

Al di là di quelle che possono essere le considerazioni personali legate a ipotetiche vie di fuga da una situazione autoimposta per l’equilibrio di questo legame malato, l’autrice ci offre davvero la possibilità di poter immaginare un epilogo diverso. Difatti, l’interruzione brusca del rapporto epistolare ci lascia nel limbo, con tanti interrogativi, scaturiti principalmente dalla lettura delle ultime lettere, che permettono alla mente di aprire scenari differenti. Ma ci lascia, altresì, con una sola consapevolezza, quella di Annuzza: «In questi tempi di morte di dolore, Agata mia, sento che il solo rifugio della mente, la sola certezza del futuro è la nostra amicizia».


 

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