“Si resti arrinesci”: dal movimento al libro, un grido di rivalsa

 
 

Emigrazione, spopolamento, perdita dell’identità: questi e altri sono i temi discussi nel volume nato dalla campagna “Si resti arrinesci”.


Nei mesi antecedenti la pandemia da Covid-19, alcune delle piazze siciliane sono state inondate da giovani uniti al grido di Si resti arrinesci, una campagna regionale che vuole ridare centralità alla questione delle migrazioni economiche. Si resti arrinesci è diventato il grido di chi non vuole sapere di andarsene; riprende un vecchio proverbio, tramandato fra le generazioni, cu nesci arrinesci, ovvero chi va via (nesci) riesce ad affermarsi (arrinesci). Il movimento  vuole scommettere su un’altra idea, ovvero quella di rimanere per invertire la rotta, opporsi al trend migratorio dando voce ad una voglia di riscatto individuale che possa diventare collettiva.

Il libro “Se resti arrinesci – per fermare l’emigrazione dalla Sicilia” curato da Antudo.info ha visto la collaborazione di tanti attivisti ed è la prima pubblicazione cartacea del collettivo redazionale. Il testo si presenta in una prima parte come una profilassi storica del fenomeno migratorio a cui seguono testimonianze da parte di persone provenienti da contesti diversi che sposano la causa comune del movimento. Come la storia di Helena, studentessa dell’Accademia di belle Arti di Catania che, accostatasi al movimento, ha preso atto che il problema migratorio non ha a che fare solo con la costrizione ma dipende anche da una cornice di silenzio assordante che ammutolisce le coscienze, fa tacere il dibattito politico e acceca la vista davanti a quelle che sono le conseguenze dello spopolamento. Emigrare diventa la normalità e non ci si cura delle conseguenze.

Padre Antonio Garau, portavoce del Movimento delle valigie di cartone, pone l’accento sull’importanza da parte della classe politica di aprire gli occhi davanti ai problemi che attanagliano la vita della collettività: povertà, disoccupazione, dispersione scolastica. Sono molte le famiglie costrette a separarsi, vittime del “ricatto” che costringe a dover partire per migliorare la propria condizione di vita.

Migrare non vuol dire solo cambiare città: vuol dire anche inurbamento, distacco dalla terra, mutare il concetto stesso di abitazione. Migrare rende gli individui più fragili. Nel libro, Elio di Piazza riprende Frantz Fanon e il suo articolo “Le syndrome nord-african” nel quale, fra le altre cose, parla della “morte quotidiana” dell’individuo quale soggetto migrante, dell’isolamento sociale, della disgregazione delle relazioni e delle conseguenze di questi processi sulla personalità. Si emigra per necessità e non per scelta, si rischia di perdere l’identità siciliana e la provenienza regionale si riduce e traduce in simboli stigmatici che trasmettono il senso di una condizione di inferiorità.

Ma per discutere con coscienziosità dell’emorragia migratoria è doveroso fare molti passi indietro. Chi erano gli emigrati siciliani? Prima del 1861 non c’erano gli estremi per parlare di emigrazione economica,  i siciliani si spostavano alla ricerca di terra da coltivare o peggio ancora per sfuggire alla repressione borbonica. Sarà l’annessione al Regno sabaudo nel 1861 a determinare l’infelice cambio di rotta a noi familiare. Mutato il quadro nazionale e internazionale, complice la crisi economica che interessò la seconda metà del XIX secolo e i moti popolari sedati dalla repressione, il quadro che si presentava davanti è quello di veri e propri flussi migratori. I primi a spostarsi furono i braccianti agricoli colpiti dalla crisi delle campagne; nel periodo fascista invece l’emigrazione all’estero era impedita per legge, a favore di un’emigrazione verso il triangolo industriale del Nord Italia.

Dopo la seconda guerra mondiale l’esodo migratorio diventa massiccio e interessa anche gli stati d’oltralpe. Più emigrati, più precari, più disoccupati: non si emigra solo per cercare lavoro o migliori possibilità formative ma anche per colmare delle carenze nei paesi d’arrivo. Emblematico è il caso dei migliaia di docenti siciliani assunti dalle scuole del Nord Italia.

Parlare di migrazione implica dunque la contestualizzazione del fenomeno e il rispetto nei confronti di chi decide di intraprendere questo viaggio portandosi dietro una valigia in cui ha chiuso il suo malcontento. La forza dei movimenti risiede non solo nella loro trasversalità, ma anche nell’importanza di far sentire tutti chiamati in causa nonostante la territorialità possa circoscrivere il fenomeno ad un target di persone limitato, andando a precludere la possibilità di fare massa critica. E il linguaggio diventa un mezzo comunicativo autorevole e trascinante a cui si associano le “spinte emozionali che innervano la campagna”, come afferma Giulia, guida turistica di Marsala che trasla, a partire dell’affezione verso la propria terra, la volontà di sbracciarsi per scrivere il cambiamento. “Lu munnu è tuttu bellu si crisci a girallu ma quannu a vulutà è chidda to”.