Ne uccide più il negazionismo che il coronavirus

Nell’era del coronavirus, il negazionismo è la medicina che “cura” il patriottismo e riempie i cimiteri. Stati Uniti, Brasile e Regno Unito, prossimi populismi senza popolo.


Partiamo dalla distinzione tra due concetti come negazione e negazionismo. Spiegati dal sociologo Keith Kahn-Harris in “Denial: the unspeakable truth” – citato a tal proposito come riferimento da Internazionale – i due concetti sembrano vicinissimi ma sono in realtà molto diversi. La negazione è infatti il rifiuto psicologico di accettare come vero un fatto assodato; il negazionismo non solo tende a cancellare una realtà, ma agisce per sostituirla con una potente alternativa. Per questo motivo, quest’ultimo necessita di processi più complessi che implichino strutture sociali e di potere, piegate all’occorrenza.

Andando a pescare il paradosso, è possibile che un’istituzione che semplicemente nega una condizione di qualche tipo sia accusata di essere bugiarda; mentre è probabile che un’operazione negazionista condotta da un soggetto influente riscuota successo. Questo successo diventa pericoloso se di mezzo c’è la salute. E allora, meglio bugiardi che negazionisti? Meglio responsabili.

La settimana italiana si è aperta lunedì con le parole, riprese da molti quotidiani, di Paolo Bonanni, epidemiologo, ordinario di Igiene all’Università di Firenze. Il professore si scaglia direttamente contro i paesi cosiddetti “negazionisti del coronavirus”, principali responsabili dell’aumento a livello globale dei numeri del contagio (giunti a quasi 15 milioni i casi) da un paio di mesi a questa parte. Alla domanda sulla spaventosa impennata dei casi nel mondo, Bonanni ha risposto: «Non mi sorprende, non è un caso che succeda in Paesi di fatto negazionisti, che non hanno mai accettato una politica di chiusura e di distanziamento come Stati Uniti e Brasile».

Quello che è successo e succede in grandi paesi come Stati Uniti, Brasile e, leggermente in minor misura, Regno Unito, oggi stretti nella morsa dell’epidemia di coronavirus, è il prodotto di una campagna definibile negazionista. La realtà sottovalutata del coronavirus, pubblicizzata come controllabile, ben al di sotto della gravità prospettata e comprovata dalle emergenze precedenti in diversi paesi del mondo, dalla prima vittima, la Cina, al caso Italia, è diventata l’isola felice confezionata in modo del tutto irresponsabile per i propri concittadini.

Altro denominatore comune: il populismo dei governi delle nazioni appena citate, tutte in alto nella classifica dei paesi più colpiti dalla pandemia di Covid-19. Più di un qualche sospetto che non si tratti di un caso.

C’è da dire che nei moltissimi paesi dove è stato introdotto un lockdown d’emergenza o di prevenzione, principalmente per evitare il collasso del sistema sanitario, queste misure si sono scontrate con la diffidenza dell’opinione pubblica. Generalmente queste azioni di “privazione di libertà” sono state considerate un’esagerazione e la pandemia, spesso, un problema lontano, tanto da non necessitare coprifuoco totali. Una negazione a tutti gli effetti che dimezza il lavoro negazionista, laddove una campagna sistematica è portata espressamente avanti con gesti e dichiarazioni politiche più o meno esplicite.

In questi mesi negli Stati Uniti si sono svolte manifestazioni di protesta contro le “restrizioni”, per difendere la libertà dalle mascherine e dalle prescrizioni governative a causa della pandemia. Un paradosso che ha portato un gran numero di persone a “lottare per essere liberi” e, soprattutto, tanto consenso a teorie del complotto, quando non apertamente negazioniste.

Contemporaneamente il presidente americano Donald Trump si è espresso più volte a stemperare il pessimismo e la gravità dell’epidemia statunitense, commettendo scivoloni come sulle «iniezioni di disinfettante» – dichiarazione definita dagli esperti inquietante e pericolosa – o sulle mascherine, sdoganate (finalmente, dopo mesi) perché «patriottiche». Ma sono solo alcuni esempi che riguardano il presidente americano che, ancora oggi, chiama il nuovo coronavirus con l’insopportabile appellativo di «China Virus» e che forse, nonostante tutto, non ha mai avuto contezza della pandemia e, in particolare, fiducia negli scienziati a disposizione della sua amministrazione.

Sottovalutazione, costruzione di un nemico cinese, cure miracolose per un virus “non preoccupante” per mesi, provvedimenti clamorosamente mancati, tutto questo mentre in Italia e in Spagna morivano a centinaia al giorno e fino a pochi giorni fa. Oggi gli Stati Uniti sono al 42esimo giorno di crescita dei contagi, arrivati quasi a 4 milioni con oltre 140 mila decessi.

Il presidente Trump, intervistato da Chris Wallace su Fox, accusa però la cattiva stampa e i troppi test: «Ragazzi di 20 anni hanno il raffreddore per due giorni, fanno il test, risultano positivi e noi li conteggiamo. Non dovrebbero essere considerati casi di Covid-19». Un tentativo goffo di ridurre i conteggi, certo, ma soprattutto di addossare la colpa di tutti i problemi ai provvedimenti dei governatori.

In America latina la situazione si è aggravata rapidamente. Protagonista indiscusso dei numeri allarmanti e in fortissima crescita, il Brasile di Jair Bolsonaro, arrivato alla soglia degli 80 mila decessi e i 2,1 milioni di casi confermati di coronavirus. Il paese, dal quale i contagi si sono diffusi senza controllo in Messico, Cile e Perù, paga il prezzo della politica sconsiderata del suo presidente, anche lui positivo e sottoposto a quarantena.

Bolsonaro, imitando il suo amico a stelle e strisce, si affida oggi alla benevolenza di Dio e alla quantomeno dubbia terapia a base di idrossiclorochina. Secondo il presidente brasiliano le attività devono continuare regolarmente in tutto il paese perché «tanto prima o poi tutti dovremo morire». Poco tempo fa, in piena pandemia, affermava umoristicamente di “commettere un crimine organizzando una festa”; ha anche provato a minimizzare ammonendo “l’assenza di prove” sulla pericolosità del nuovo coronavirus.

In Brasile contagio continua a diffondersi minacciosamente, e non solo dove le capacità del sistema sanitario sono più avanzate. Gli effetti, soprattutto per le comunità rurali e nelle zone più a nord, sono drammatici e la loro portata imprevedibile. Basti pensare che cinquanta milioni di brasiliani vivono in abitazioni prive di collegamenti all’acqua corrente.

L’approccio di Bolsonaro atto a sminuire la pericolosità del virus, impedendo fino all’ultimo le chiusure per non perdere consenso elettorale, è stato seguito anche dal premier inglese Boris Johnson. I segnali d’allarme puntualmente ignorati fino all’inverosimile, fanno sì che ancora oggi stiano morendo circa un centinaio di persone al giorno con un totale di oltre 45 mila decessi nel Regno Unito.

Anche Johnson, sminuendo sminuendo, è stato contagiato e ricoverato, ovviamente con le migliori cure di cui si può disporre. La narrazione populista resta comunque la stessa: il leader è un coraggioso uomo condottiero della nazione che non ha paura di nulla, indossa, ma insofferente, la mascherina e fronteggia il pericolo in prima persona per i suoi cittadini. È un fatto appurato che la lentezza, le semplici suggestions – in riferimento alle attività commerciali nel Regno Unito dove le mascherine sono appunto «consigliate» – o i “lockdown a metà” abbiano portato più danni che benefici, scatenando epidemie senza controllo. Danni che si stanno rapidamente tramutando in conseguenze direttamente elettorali.

Le condotte eufemisticamente azzardate di governi come quello statunitense, brasiliano e britannico (ma non solo) costituiscono un indissolubile intreccio di negazionismo, incompetenza e irresponsabilità che lascia morire gli ultimi per le strampalate teorie dell’ultimo arrivato. È la frontiera estrema di ciò che può diventare un “populismo senza popolo”, senza la sua platea.