Il museo della morte: un viaggio concettuale nelle Catacombe dei Cappuccini

In molti conoscono questo luogo, in pochi vi fanno visita. Alle Catacombe dei Cappuccini si trovano 8 mila salme, frutto di antiche tecniche di imbalsamazione.


Il cimitero sotterraneo annesso al convento dei frati Cappuccini noto col nome di “catacombe dei Cappuccini” esiste a Palermo sin dal XVI secolo. In questi cinque secoli di storia i frati hanno portato avanti l’antichissima tradizione dell’imbalsamazione, che in pochi sanno essere stata molto diffusa in Sicilia.

Nato come cimitero per i defunti appartenenti all’ordine, dopo poco più di 60 anni – data l’insufficienza degli spazi – si decise di scavare “le catacombe” aggiungendo i numerosi corridoi visibili ancora oggi. L’idea di mummificare i corpi per poterli lasciare fuori dalle sepolture tradizionali nacque al momento del ritrovamento di 45 cadaveri di frati, ancora incredibilmente intatti per via delle naturali condizioni del luogo, accadimento che fu interpretato anche come un segno della benevolenza divina.

Fu così che i frati cominciarono ad accogliere le richieste di nobili, borghesi o personaggi illustri che chiedevano di poter fare imbalsamare i corpi dei loro cari defunti per poter continuare a visitarne la salma pressoché intatta. Solo i ricchi, dato l’alto costo del procedimento, potevano permettersi questo trattamento speciale anche dopo la morte, ed ecco il motivo per cui le mummie ancor oggi custodite nelle catacombe vestono i sontuosi abiti del giorno di festa.

In realtà occorre precisare che il termine “catacombe” risulta inappropriato: le vere e proprie catacombe, infatti, erano luoghi nascosti – spesso cimiteri – in cui i primi cristiani, ancora oggetto delle persecuzioni romane, si riunivano per poter celebrare il rito della messa e altri sacramenti. Non avendo mai avuto questo ruolo, è dunque più corretto considerare quello del convento dei cappuccini un semplice cimitero, il quale però ha delle peculiarità davvero notevoli, dal momento che ospita delle salme mummificate allestite in modo da presentarsi come una vera e propria esposizione museale che ha per oggetto il tema della morte.

Sorge spontaneo domandarsi che ruolo avessero, a quel tempo, esposizioni di questo tipo, oltre al già citato motivo della permanenza dei propri cari in un aspetto molto vicino a quello che avevano in vita. Dietro l’idea che ha alimentato la tradizione delle imbalsamazioni c’è infatti un preciso motivo, di natura sia religiosa che filosofica o più semplicemente umana: la volontà di creare un’ostensione visiva del tema della Vanitas.

“Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, sono le prime parole di uno dei più famosi libri dell’antico testamento, il libro di Qoelet, noto anche col nome di Ecclesiaste. L’autore del testo sacro è considerato dalla tradizione cristiana un uomo sapiente che in questo libro mise per iscritto le sue riflessioni sulle più laceranti contraddizioni della vita umana.

Come accade per numerosissimi autori antichi, al posto della propria firma si era soliti attribuire i propri scritti a personaggi famosi e questo accade anche nel libro di Qoelet, le cui parole vengono messe in bocca al re Salomone, il più grande re d’Israele, successore di Davide e famoso per aver ricevuto da Dio il dono di una incomparabile sapienza. Queste prime parole, ormai scolpite nella storia, non solo introducono il tema del libro, ma ne costituiscono un efficace compendio, svolgono insomma una funzione simile ad un titolo e ci riassumono in breve il pensiero di chi lo ha scritto.

La tesi principale che Qoelet sviluppa con numerosissimi esempi tratti dalla vita quotidiana è che a prescindere dall’estrazione sociale, dall’età e dalla buona o cattiva sorte, la vita degli uomini ruota attorno alla “vanità” di tutte le cose. Una riflessione che metta al centro la vanitas rerum è dunque animata da un senso di profonda insoddisfazione nei confronti dei beni terreni.

Se consideriamo che Qoelet mette in bocca un simile pensiero al re più ricco e umanamente felice di tutta la storia (quale è tradizionalmente considerato Salomone), risalta subito all’occhio che l’insoddisfazione cui è connesso questo senso della “vanità di tutte le cose” ha un significato profondamente spirituale.

Un’altra famosissima frase, sempre dal libro di Qoelet, è il celebre aforisma “niente di nuovo sotto il sole”. Anche quest’ultima frase, come la prima, basta a fornire il quadro di senso dell’intera opera: un compendio che basti a dimostrare a tutti gli uomini che ogni affanno, sete di ricchezza, potere o al contrario che ogni tribolazione, fatica o rischio, tutti si concludono con la morte, e dal momento che anche ciò che faticosamente si è ottenuto in vita lo si dovrà lasciare; tutto appare essere vano, cioè avvolto da una inconsistenza metafisica che riesce a svuotare dal di dentro qualsiasi bene tale o presunto del suo intrinseco valore, sia esso positivo o negativo.

A prima vista sembrerebbe trattarsi di una riflessione molto pessimistica e che lascia poche chances all’opzione della felicità terrena. Eppure, al contrario, il libro di Qoelet non solo racchiude la radice preziosa di un tema che avrà molta fortuna letteraria nella fondazione filosofica dell’intimo bisogno di infinito del desiderio umano (basti pensare allo Zibaldone di Leopardi che teorizza l’impossibilità della saturazione da parte dell’uomo del proprio desiderio di piacere attraverso singoli piaceri mondani) ma si conclude, in modo inaspettato, con un inno alla bellezza della vita, con particolare riferimento alla stagione della giovinezza:

“Dolce è la luce! \ Ci rallegriamo alla vista del sole. \ Anche se vivrai a lungo, \godi tutti i giorni della tua vita, \ ma ricordati \ che saranno molti i giorni oscuri. \ Non sai come sarà il tuo avvenire. \ Perciò, godi la vita, ragazzo! \ Sii felice, finché sei ancora giovane. \ Fa tutto quello che ti piace \ E segui i desideri del tuo cuore. \ Ma non dimenticare che Dio \ ti chiederà conto di tutto. \ Scaccia le preoccupazioni dal tuo animo \ e tieni lontani da te i dolori, \ perché la giovinezza passa presto.” (Qoelet, 11, 7-10)

Alla luce di questa breve parentesi storico-letteraria, possiamo immaginare, facendo un esperimento di immedesimazione, che i primissimi visitatori del cimitero dei Cappuccini, così come gli stessi frati che lo crearono, fossero animati da un lato dal desiderio di “inseguire” la vita anche dopo il suo termine naturale, cercando di immobilizzarne l’aspetto nella figura corporea del defunto, mummificato per impedirne la completa dissoluzione; dall’altro lato però possiamo tuttora comprendere il generale senso di impotenza di fronte ad una tecnica di emulazione della natura che, per quanto affinata, non potrà mai restituire la vita ad un corpo morto.

Sappiamo con esattezza che il cimitero venne chiuso nel 1880, e che dopo questa data vennero accolte soltanto altre due salme, in via del tutto eccezionale. Nel 1911 fu accolta quella di Giovanni Paterniti, viceconsole degli Stati Uniti, mentre nel 1920 giunse al cimitero dei Cappuccini il corpo della piccola Rosalia Lombardo, una bambina di soli due anni che era morta di polmonite. Proprio sul cadavere della piccola Rosalia, su insistente richiesta del padre, venne probabilmente realizzato il processo di imbalsamazione artificiale meglio riuscito al mondo e non a caso è proprio lei ad essere definita – non senza una tragica ironia – “la mummia più bella”.

Se la tecnica della mummificazione naturale si basa sulla disidratazione, per quella artificiale (o imbalsamazione) è necessario avere precise conoscenze e una discreta dimestichezza con la chimica. Fu infatti il Dott. Alfredo Salafia ad eseguire il processo di conservazione della “picciridda” della cripta dei Cappuccini.

Da analisi scientifiche compiute nel 2009 è emerso che, per l’operazione, Salafia utilizzò una miscela composta da formalina, per uccidere i batteri, alcool, che avrebbe contribuito alla disidratazione, glicerina, per impedire l’eccessivo inaridimento, acido salicilico, che avrebbe impedito la crescita dei funghi, e sali di zinco, che conferiscono rigidità. A chiunque visiti le “catacombe” dei Cappuccini il corpo della bambina apparirà ancor oggi perfettamente intatto, tanto da destare l’impressione che stia dormendo.

Nonostante il processo di mummificazione sia considerato uno dei migliori – se non il migliore – il corpo  nel tempo ha presentato piccoli segni di decomposizione. È stato quindi necessario collocare la bara all’interno di una teca ermetica di acciaio e vetro, contenente azoto, tenuta alla temperatura costante di 20 gradi centigradi e con umidità del 65 per cento.

Non c’è dubbio che la cripta del monastero dei Cappuccini sia un luogo unico nel suo genere e, sebbene solo i più coraggiosi amanti del brivido vorranno provare a visitarlo per la prima volta o ritornarci, tutti possono votarlo fra i “luoghi del cuore” sul sito del FAI per proteggere la storia di uno dei posti più densi di mistero e fascino di Palermo.


Foto in Copertina: Juan Antonio Segal