L’arte che mette in ginocchio il razzismo

Carlos Martiel, Yinka Shonibare e Kara Walker, alcuni esempi di artisti che lavorano con un linguaggio chiaro e forte contro il razzismo.


Vi sono termini che a oggi dovrebbero risultare desueti, termini che hanno dato vita a battaglie per giuste cause, madri di ideali che hanno smosso le coscienze e che hanno permesso passi in avanti, creando un evidente distacco da una società vittima di retaggi passati – molto spesso culturali ma non raramente accompagnati da una buona dose di ignoranza – che oggi dovremmo considerare erronei e da cui rifuggire. Una società spaccata a metà: odio e amore, guerra e pace, vittima e carnefice.

Questi termini non sono altro che i nomi dati a problemi che attanagliano (il presente è d’obbligo) l’umanità, per cui abbiamo combattuto e continuiamo a batterci: sessismo, omofobia, razzismo e tanti, tanti altri. Ma è proprio l’ultimo che vogliamo prendere in esame.

Razzismo è etimologicamente legato alla parola razza, parola già di per sé ideologicamente, politicamente e socialmente discriminatoria – basti pensare all’involuzione della parola stessa: da specie, passando a etnie e poi ancora a religioni, a seconda del modo in cui si usa o al soggetto a cui si riferisce, in questo caso l’uomo, come evidenzierà l’accademico della Crusca Lino Leonardi nel suo testo Le parole hanno un peso. “Razza” sinonimo di identità non umana, scritto in occasione dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali da parte della dittatura fascista.

Un odio senza tempo, per meglio dire, che sembra non conoscere remissione, come un cancro che non vuole sparire e che anzi genera pericolose metastasi, impazzite e dannose. Sono tante le notizie che provengono dal mondo; nessuna nazione, società o comunità ne è esente, segno di come queste metastasi siano davvero profondamente radicate. Tutto può diventare improvvisamente il nemico da schiacciare, per il proprio credo, la propria provenienza o mediante una epidemia (come il razzismo verso il popolo asiatico per via del Covid – 19).

Risale allo scorso 25 Maggio la notizia della morte dell’afroamericano George Floyd, a Minneapolis, che verrà prima arrestato e subito dopo ucciso dall’agente Derek Michael Chauvin il quale, per un “eccesso di zelo” dovuto sia a un evidente abuso di potere che a un insito odio razziale, terrà premuto il ginocchio sul collo dell’uomo per più di nove minuti causandone il decesso per asfissia.

Please I can’t breath!, «vi prego, non riesco a respirare». E quella fame d’aria l’abbiamo provata tutti, quella preghiera l’abbiamo riformulata tutti, sperando in un epilogo diverso nonostante conoscessimo bene il finale del video. E nel volto del suo assassino il delirio di onnipotenza, freddo, impassibile come se stesse compiendo un gesto usuale: uccidere qualcuno. Tutto ciò ha causato un’ondata di sdegno mista a dolore, forza di reagire e voglia di riscatto trasformatasi presto in accese manifestazioni il cui mantra continua a essere I Can’t Breathe.

Si tratta di un odio immotivato per coloro che sono considerati di “razza diversa”, che tuttavia hanno sempre voluto far sentire la loro voce, oggi come allora. Anche in questo caso gli artisti si sono uniti a questo coro eterno, non a caso per la maggior parte afroamericani, pronti a raccontare la loro storia e le loro difficoltà in quanto “minoranza”, specie in una nazione “esagerata” come l’America. Un racconto per immagini, per performance, per installazioni che non si può zittire, nemmeno volendolo.

Ne sono esempio le performance dell’artista cubano Carlos Martiel, residente a New York, il quale crea attraverso il suo corpo un dialogo con l’altro. Un corpo sottoposto ad azioni crude, attraversato da un dolore sia fisico che interiore, come una scossa elettrica, in grado di fulminare anche coloro che, a debita distanza, osservano. Denuncia i conflitti migratori, le ingiustizie razziste, i soprusi che sono quasi “ingentiliti” da questo suo corpo, simile a una statua, ma che si presta come tela.

Denuncia la politica di Donald Trump, durante la cui presidenza i diritti sociali e civili hanno fatto un passo indietro, facendo emergere un’America intollerante. Lo racconta con Intruder, una performance legata alla crisi dell’immigrazione e alle politiche trumpiane a esse legate che limitano l’accesso a coloro che richiedono asilo negli States, facendo leva altresì sulla xenofobia e sulle ostilità che gli immigrati vivono all’interno dei loro “centri di detenzione”.

Oltre a questa versione, esiste quella ambientata in Europa, dove soprattutto negli ultimi anni si è intensificato il problema dell’intolleranza legata all’immigrazione, il disagio dei confini e di chi li subisce, negando uno spazio vitale a cui tutti hanno diritto. Ecco quindi Martiel, a piedi nudi, in piedi sulla sagoma dell’Europa realizzata interamente con punte di recinzione anti salita o con dei bulloni

Carlos Martiel, Intruder (Europe), 2017. Kunstverein Familie Montez, Frankfurt, Germany. ph: Barbara Walzer (Courtesy: l’artista)

Carlos evidenzia il colore dell’immigrazione negli Stati Uniti, che si interfaccia con una doppia sfumatura, ad esempio quella dei Cubani e delle altre minoranze. In Basamento l’artista mette in discussione i parametri selettivi di cui tengono conto le autorità, distinguendo i diversi tipi di immigrato. «Che ruolo ha ciascun immigrato e soprattutto quanto influisce la sua nazionalità di origine? … Quanto contribuiscono all’economia di questo paese i milioni di lavoratori immigrati illegali?».

Carlos Martiel, Basamento, 2016. CIFO Art Space, Miami, USA. ph: Walter Wlodarczyk (Courtesy: l’artista)

Una discriminazione che ha il vile intento di “inferiorizzare” quella minoranza, piegarla dinanzi alla grande America: sembra voler dire questo con la sua ultima performance, durante la quale Carlos è “incaprettato” dalla bandiera Americana, impossibilitato nei movimenti.

Tuttavia l’artista non dimentica le minoranze oltreoceano, alle quali ha dedicato molti suoi lavori come Plague, la performance che ha avuto luogo allo ZAC di Palermo nella mostra Cuba: Tatuare la Storia dove, disteso completamente nudo, si è fatto cospargere di insetticida per scarafaggi al fine di denunciare le pratiche neonaziste e xenofobe nei paesi europei, messe in atto principalmente dai partiti di destra contro le minoranze non bianche e gli immigrati.

Carlos Martiel, Plague, 2016, Performance, ZAC / Cuba. Tatuare la storia, Courtesy: l’artista; GILDA LAVIA Roma; ruber.contemporanea; ph Annamaria La Mastra

Rimanendo in territorio europeo, si distingue l’artista anglo-nigeriano Yinka Shonibare, il quale indaga i temi dell’identità culturale, del colonialismo e del postcolonialismo, non senza una punta di ironia. Le sue opere prevedono, per lo più, la rivisitazione di altre già esistenti: nessuna sorpresa dinanzi a sontuosi abiti ottocenteschi ricreati in tessuto batik, eccentrici e primitivi così come la Nike di Samotracia, rivestita in blu, verde e rosa acceso. Né tantomeno altrettanto stupore alla vista di un Dorian Grey d’eccezione, nero. Un gioco di cortocircuiti creato grazie alla commistione tra culture, dal ribaltamento di una rappresentazione convenzionale con cui l’artista ripensa l’identità, la differenza, gli stereotipi.

A proposito di colonialismo, risale all’ottobre dello scorso anno l’inaugurazione della Fons Americanus presso la Turbine Hall della Tate Modern di Londra, che porta la firma dell’artista afroamericana Kara Walker: una grande Venere Africana si erge, sormontando due ampie vasche che riportano scolpiti elementi legati alla schiavitù del popolo nero.

Nulla di strano dato che il leit motiv dell’artista sono proprio temi di forte impatto – la violenza, il razzismo, la segregazione del popolo nero, la schiavitù – che cerca di raccontare anche attraverso quello che è il suo “marchio di fabbrica”, ovvero le sue silhouette, semplici contorni privi di dettagli immersi in racconti fatti di scenari bucolici e idilliaci ma, in contrasto, vittime di torture, esecuzioni e violenze: con tetra ironia, cerca di far coesistere elementi distanti tra loro.

Kara Walker, Fons Americanus, 2019, Tate Modern Turbine Hall per Frieze London, ph: Dario Tamburello

Se da un lato il termine “razza” è inesorabilmente legato, nella sua connotazione negativa, alle diversità acquisite dall’uomo durante il processo evolutivo che va dalle caverne ai giorni nostri, dall’altro il “razzismo” indica la più aspra avversione e discriminazione verso quelle stesse diversità, come se fosse tacitamente negata l’eterogeneità, come se “di razza ne dovesse rimanere solo una”, secondo le regole di una inesistente supremazia.

Da qui le malsane ideologie, lo sfruttamento e le fiere presunzioni che videro i più efferati crimini contro l’umanità: il colonialismo che prevedeva padroni e schiavi, le organizzazioni che propugnavano la supremazia della razza bianca come il Ku Klux Klan, la segregazione razziale negli Stati Uniti atta a separare i bianchi dai neri, per mezzo di una ghettizzazione certosina di questi ultimi che ne limitava la vita di tutti i giorni (ristoranti, scuole, cinema …) con una restrizione dei diritti civili, il nazismo e il mito della “razza ariana” oltreoceano. Tralasciando i tristi estremismi ben noti anche grazie ai libri di storia, il razzismo è sempre stato “un fatto quotidiano” senza tempo.

Carlos, Yinka e Kara, manifestanti-artisti: si fa quel che si può per dare voce a quelle minoranze a cui la bocca viene tappata e che non possono respirare. Si fa quel che si può al fine di educare le masse al pensiero e all’uso corretto delle parole. Si fa quel che si può nella speranza di cancellare le parole razza e razzismo, perché la parole hanno un peso: quello del dolore intrinseco che queste portano con sé.


... ...