La guerra alle statue: tutte le volte che abbiamo abbattuto un passato doloroso

La guerra dichiarata alle statue è un fatto umano, ma ogni statua è diversa. Non sono tutte monumenti sacri così come non sono tutte celebrazioni politiche.


All’indomani della morte di George Floyd e Breonna Taylor – ma sono stati portati alla luce nuovi casi di brutalità razzista della polizia negli ultimi mesi – le proteste negli Stati Uniti da uno stato all’altro si sono concentrate anche sui simboli del colonialismo, dello schiavismo e di un’America che dovrebbe esistere (per l’appunto) solo nelle statue. La foga e la guerra alle statue, sostanzialmente, possono voler dire due cose: la voglia costante dell’umanità di cancellare i simboli di un mondo da rifiutare, oppure, banalmente, un clamoroso ritardo sulla distruzione di monumenti rimasti invece per molto tempo nell’indifferenza.

Non tutte le statue hanno lo stesso valore (sia artistico che sociale) e non tutte rappresentano un’oppressione presente, motivo per cui non bisogna cascare nel tranello che uniforma tutti i monumenti a “testimonianza morale e politica del passato”. Il crollo della statua di Saddam Hussein di piazza Firdos a Baghdad non ha lo stesso significato di quello che riguarda il conquistatore Cristoforo Colombo, vittima di attacchi e distruzione da anni negli Stati Uniti, e differente da questi due è l’attacco alla statua di Indro Montanelli a Milano di pochi giorni fa.

Con riaccensioni improvvise, questa o quell’opera celebrativa ha infastidito una comunità che non si è riconosciuta, a seconda del caso, nel messaggio celato dietro il ricordo di un determinato personaggio. Saddam è il dittatore caduto; Colombo è lo schiavista del millennio; Montanelli è il pedofilo che non si è mai pentito. Tre esempi di come diverse sensibilità possono portare allo stesso epilogo, quello distruttivo (che non è per forza il più consono, sia chiaro).

Quando Ottaviano, Antonio e Lepido si autoproclamarono «triumviri» per mettere a posto Roma, vollero la testa degli avversari, nient’altro che la prova della loro avvenuta eliminazione. Le statue e le teste di marmo degli imperatori rimasero in piedi (i loro cadaveri erano belli che spariti), monumenti di una Roma imperiale da dimenticare. Potrebbe non stupire che nell’Antica Roma si badasse più alla sostanza che alla forma, e con metodi certamente “barbari”, ma spostandoci nella Libia di Gheddafi del 2011 a perdere la testa – in ogni senso – saranno rivoluzionari, statua e dittatore: il pacchetto completo della moderna rivoluzione contro il passato.

I Francesi, dopo aver decapitato gloriosamente i propri regnanti, cominciarono a decapitare anche le statue portando avanti quel fenomeno riassumibile nell’espressione «vandalismo rivoluzionario» di cui furono vittime incolpevoli anche statue ben più antiche del XVIII secolo. In mezza Europa, dietro la scia della Rivoluzione Francese, caddero in terra altre teste marmoree, effetto del furore giacobino che era solito non solo decapitare quei monumenti individuali, ma anche trascinare le teste in lungo e largo per la città.

Colpire le statue rappresenta nella storia un gesto liberatorio anche se sospinto da una ragione di massa che, a seconda del contesto, può diventare “follia distruttrice”. Colpire una statua può voler dire che il tempo di cui è testimonianza è avvertito negativamente dal nuovo tempo che subisce la sua presenza fisica. Per questo motivo, indipendentemente da quanto abbia resistito la statua al tempo, esiste un momento in cui un’opera d’arte (un’opera di celebrazione) può diventare fuori luogo o semplicemente rifiutata dalla comunità o da parte di essa.

Al crollo del fascismo in Italia, furono distrutte centinaia di effigi di Mussolini e su tutti emerge il testone bronzeo di Mussolini letteralmente sbriciolato fra i festeggiamenti del popolo uscito nel 1945 dal Ventennio nero. Quella rabbia repressa di un popolo ancora costretto in una serie di conflitti sanguinosi e dispendiosi raggiunse il suo apice nei corpi appesi a piazza Loreto, nelle statue distrutte e nei motti propagandistici cancellati dai palazzi.

Ma non fu cancellato tutto col bianchetto perché parte di una “testimonianza fascista”: bassorilievi, le via Roma obbligate per tutt’Italia, opere d’arte e architettoniche di edilizia privata e pubblica rimasero e, anzi, quest’ultime divennero importanti riferimenti cittadini in molti casi.

La statua del dittatore sovietico Iosif Stalin, eretta nei pressi del Teatro Nazionale di Budapest, venne abbattuta durante la rivolta ungherese del 1956 contro l’oppressione sovietica. Si tratta di un’altra immagine indelebile degli ultimi cento anni di storia: l’imponente figura di Stalin che crolla è forse fra le prime dieci scene più utilizzate per riassumere i movimenti politici europei prima del crollo di un altro “monumento”, il muro di Berlino.

Restando nell’Est Europa, ben più recente è la storia della statua del leader bolscevico Lenin a Kiev, abbattuta durante la «marcia di un milione» nel dicembre del 2013. Nessuno ce l’aveva col leader scomparso da quasi un secolo; Lenin non stava interrompendo i negoziati di libero scambio fra Ucraina ed Unione Europea (uno dei principali motivi della protesta contro il governo Yanukovich allora) eppure lui e una decina di altre sue copie monumentali sono stati distrutti in nome dell’apertura all’Occidente.

Ogni volta è una storia diversa. La distruzione di un simbolo, e nello specifico di una statua, può voler dire molto di più di un atto vandalico. E forse sta tutta qui la questione: forse sarebbe necessario non confondere un’azione politica sfrontata con un banale atto di vandalismo e viceversa, poiché esistono azioni più potenti e che sono meno “al limite” fra deturpare e protestare.

Quel che è certo è che l’uomo ha da sempre abbattuto simboli del passato, sia stato esso dominato da un tiranno o semplicemente da un altro sistema sociale o culturale. Non perché la storia non sia “maestra di vita”, o perché le popolazioni di ieri fossero meno civili dei nostri contemporanei: il cambiamento sociale e l’avvicendamento da un tempo a un altro si è sempre fatto così, cancellando il passato, portandolo con sé e mantenendolo invisibile agli occhi, socialmente ed esteticamente.