Educazione e «cura»: riflessione su Galimberti e la scuola

Avere cura di sé per avere cura degli altri è un principio che garantisce maggiore salute collettiva. Per fare ciò, secondo Galimberti bisogna ripartire dall’educazione.


Il tema della cura è un tema abbastanza recente nella cultura contemporanea occidentale, ma era il fondamento della cultura antica da cui veniamo, un fondamento che abbiamo dimenticato. Nelle opere fondamentali di Platone e Aristotele, degli stoici e degli epicurei il concetto di cura era essenziale per la vita: non c’è vita se non c’è cura di sé e degli altri.

Secondo Epitteto l’essere umano è l’essere che è affidato alla cura di se stesso, non per dedicarsi solamente a se stesso ma per aver cura degli altri e del mondo. Aristotele, nell’Etica Nicomachea e nel Politco scrive che l’essere umano, che è un animale politico, sociale e comunitario (ζῷον πολιτικόν, zoon politikon) ha bisogno innanzitutto di aver cura dell’anima.

Nell’Alcibiade I Socrate parla con Alcibiade, un giovane ateniese che aspira alla politica e a gestire la città (e ci riuscirà) e rivolgendosi a lui dice: «è il momento opportuno perchè tu cominci ad aver cura di te, perchè se non avrai cura di te non saprai aver cura della città».

Secondo Luigina Mortari educare significa offrire all’altro quelle esperienze che lo metteranno nella condizione di assumersi la responsabilità della sua formazione, cioè trasmettere questa cura di sé per trasmetterla agli altri, che a loro volta la perpetuano; la cura, secondo la Mortari, non è quindi un’idea e nemmeno un sentimento, ma è una pratica mossa dall’intenzione di procurare beneficio all’altro, è un’azione.

Educare è una parola dimenticata poiché a scuola ormai si fa istruzione, cioè si prendono i saperi e si pensa di trasmetterli dentro la mente degli studenti; ci si dimentica invece che la scuola deriva dal termine greco σχολή (scholè), che significava ozio e ha il significato di mettere il giovane venuto al mondo nella condizione di essere capace di aver cura di sé.

Il bravo maestro, in questa visione, è quindi quello che si rende in poco tempo non indispensabile: non gli interessa tanto l’acquisizione di certi contenuti da parte dei suoi studenti/allievi, ma è preoccupato perché imparino a pensare liberamente, perché senza la capacità di pensare liberamente non c’è neppure democrazia, e quindi non c’è un mondo dove poter vivere e continuare a coltivare la vita dell’anima, che è il compito dell’educazione. Questo dovrebbe fare la scuola: liberarsi da questi ceppi che impediscono di pensare che questo è un movimento essenziale, la cura dell’anima, inteso come cura della mente, non quindi come concetto religioso, ma proprio riprendendo il concetto greco di ψυχή, (psyché).

Aver cura di sé, in senso egoistico, vuol dire chiudersi in sè, dunque tutt’altro che assicurarsi la con-vivenza con gli altri; eppure, secondo Aristotele non si crea la comunità se non si coltiva l’amicizia, la prima virtù dell’anima, e l’amicizia si può coltivare in qualsiasi modo. L’importante è la capacità di mettere al centro se stessi, non come qualcuno che vive chiuso in se stesso, ma che concepisce la felicità come la condizione che è possibile solo se ci si occupa anche della vita dell’altro. Non c’è benessere individuale, c’è il benessere della comunità e se ci si occupa della comunità e anche dell’altro, che fa appello a te per coltivare se stesso, si creano le condizioni per quella τέχνη (téchne) della vita buona di cui parlavano gli antichi.

Ciascuno di noi quando nasce ha necessariamente bisogno dell’altro: non c’è una condizione buona della vita se tu non ti prendi cura degli altri, se non rispondi all’appello che l’altro ti lancia, perchè l’altro ha bisogno di te, in qualsiasi condizione. Solitamente sembra un’emorragia di senso mettersi a disposizione degli altri, invece è la condizione per “trovare la propria umanità”. Non è dunque un gesto altruistico ma un gesto necessario alla vita.

Il termine cura, che deriva proprio dal latino cura e ha il significato di “preoccupazione”, non è coltivazione dell’anima; per i latini era proprio la preoccupazione del procurare le cose necessarie alla vita di tutti i giorni. L’esistenza ci mette nelle condizioni di “sobbarcarci” la vita; la cura è quindi un atto difficilissimo perché il lavoro è il mestiere di vivere, di tutti i giorni, e quando ci si trova a dover affrontare questa condizione a partire dalla propria vulnerabilità e fragilità di essere umano non è facile, o come direbbe Heidegger, spesso si cade nell’angoscia, nella paura di non trovare senso nel lavoro quotidiano.

Quando si parla di cura dunque non se ne parla solo nel senso di “cura delle ferite”. La cura ha tre significati fondamentali: il procurare cose per vivere (conservare e proteggere la vita), curare le ferite del corpo e dell’anima (le ferite che capitano nella vita di ciascuno) ma ha anche un significato legato all’educazione, che è quello di far fiorire la vita, la propria e dell’altro. Non va assunta dunque solo nel significato di terapia, perchè il compito di fronte al quale ci troviamo è quello di dare corpo a tutte le possibilità che noi umani siamo al momento in cui veniamo al mondo.

Dare corpo a queste possibilità significa trovare quelle virtù, che sono le virtù dell’essere proprio, che ci consentono di realizzarle e la cura è, come dice Plotino, ”scolpire la propria statua’‘. È come se noi umani, quando veniamo al mondo, fossimo un blocco di marmo e il nostro compito è quello di dare una forma: la forma è la cura. Non è quindi un atto riparativo ma costruttivo e creativo dell’esserci.

Tutti hanno l’anima e quindi tutti potrebbero fare quello che sostiene Socrate quando, nel Fedro, dice che l’anima per riuscire a coltivare la vita deve «mettere le ali e andare oltre», oltre la dimensione del mondo, così come ci accade e contemplare la verità e le idee più importanti. I maestri di tutti i giorni fanno questo lavoro con i ragazzini, quando cercano di sviluppare e coltivare la passione per il sapere: fanno mettere le ali.

Eppure, secondo Umberto Galimberti, la degenerazione odierna nella scuola consiste proprio nella attuale superiorità dell’istruzione sull’educazione. L’educazione permette la formazione del sentimento di una persona: non le pulsioni, ma i sentimenti, che vanno coltivati. Tra la natura e la cultura in mezzo ci stanno le emozioni (la risonanza emotiva dei loro gesti), eppure molti giovani sembrano non provarne: questo il motivo per cui molti giovani non sentono la differenza tra criticare un professore e insultarlo, o tra corteggiare una ragazza e stuprarla, poiché secondo Galimberti non hanno una risonanza emotiva di una differenza reale.

I sentimenti sono culturali, non ce li abbiamo per natura, si imparano: dalle tribù primitive che raccontavano i miti, ai racconti dei nostri nonni che ci raccontavano storie per farci capire cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto. E poi ancora i miti greci, la letteratura. Secondo Galimberti dunque i giovani non sanno riconoscere i propri stati d’animo, non sanno capirli ed esprimerli, perché non hanno un vocabolario dell’apparato sentimentale.

E chi non ha un sentimento può anche arrivare a bruciare un migrante che chiede soccorso, perché chi ha un sentimento non può fare un gesto simile. I bulli e i cattivi non avendo linguaggio usano i gesti e il problema è che la scuola, anziché educarli molto di più del normale, tende semplicemente a sospendere questi soggetti, chiaro monito di quello che troveranno in società: esclusione.

«Costruiamo l’uomo prima di tutto», l’appello di Galimberti, ovvero ripartire dall’educazione, in contrasto all’attuale mito della prestazione. Infine, da Battiato, un omaggio simbolico e poetico, oltre che eterno.


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