Ballarò, mercato da sempre: la lunga storia di uno dei simboli di Palermo

 

Uno dei quartieri più antichi di Palermo, Ballarò, ospita uno dei mercati storici della città. I suoi colori e la sua vita animano le strette strade da sempre.


Nell’anno 830, quando Palermo fu occupata dagli Arabi, la città presentava quasi inalterato l’originario impianto urbano punico-romano, rimasto sostanzialmente immutato durante il periodo delle invasioni barbariche e della conquista bizantina. In meno di un secolo, per necessità di ordine demografico, sorsero due nuovi quartieri fuori le mura: il primo fu posto al di là del corso d’acqua settentrionale (Papireto), il secondo oltre quello meridionale (Kemonia o fiume del maltempo).

Nell’anno 937 fu costruita una nuova città fortificata, detta al-Halisah (“l’Eletta”), separata da quella più antica e destinata a diventare centro direzionale, oltre che sede dell’emiro e dei funzionari di governo. Questa seconda città corrispondeva orientativamente all’odierno rione della Kalsa e nella sua cinta muraria si aprivano quattro porte.

Quando alla fine del X secolo il mercante arabo di Baghdad, Ibn Hawqal, giunse in visita a Palermo, delineò all’interno del suo “libro di viaggio” un impianto urbanistico così suddiviso:

  • il Cassaro (Al – Quasr), corrispondente all’antico centro punico-romano;
  • la Kalsa ( al – Halisah);
  • i seguenti quartieri complessivamente formavano il borgo (Rabad): il “Quartiere della Moschea” che comprendeva a sua volta i due quartieri minori degli Ebrei e di Abu-Himaz; il “Quartiere degli Schiavoni” posto al di là del Papireto, che negli ultimi due decenni della dominazione araba prese il nome di Seralcadi; il “Quartiere Nuovo”, posto al di là del Kemonia, che, dopo la creazione della Halisah, venne ampliato, occupando l’area sulla quale si trova oggi il rione dell’Albergheria.

La testimonianza tramandataci da Ibn Hawqal ci consente di identificare i mercati che erano sorti in quegli anni nella parte meridionale del Rabad, compresa tra la moschea di Ibn Siqlab e il suddetto Quartiere Nuovo, ossia in quella zona che oggi viene a coincidere grosso modo con il grande mercato di Ballarò. Vi si commerciavano prevalentemente granaglie, verdure, ortaggi e frutta, poiché le botteghe della carne si trovavano quasi tutte nel simat del Cassaro dove lavoravano anche i venditori di olio, i droghieri, numerosi artigiani e perfino alcuni cambia-valute.

Riportiamo in proposito le parole di Hawqal: «La più parte de’ mercati giace tra la moschea di ‘Ibn Siqlȃb e questo Quartier Nuovo: per esempio il mercato degli oliandoliche racchiude tutte le botteghe de’ venditori di tal derrata. I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuori le mura della città; e similmente i sarti, gli armaiuoli, i calderai, i venditori di grano e tutte quante le altre arti. Ma i macellai tengono dentro la città meglio che centocinquanta botteghe da vender carne; e qui (tra i due quartieri testè nominati) non ve n’ha che poche altre. Questo (grande numero di botteghe) mostra la importanza del traffico suddetto e il grande numero di coloro che lo esercitano. Il che puossi argomentare dalla vastità della loro moschea; nella quale, un dì ch’era zeppa di gente, io contai, così in aria, più di settemila persone: poiché v’erano schierate per la preghiera più di trentasei file, ciascuna della quali non passava il numero di dugento persone».

Al di là del testo appena citato, tuttavia, il documento più antico in cui compare la “contrada Ballarò” è un atto notarile del 9 giugno 1287. Un “macellum Ballaronis” viene, poi, ricordato in altri due documenti del 13 aprile e del 12 giugno 1299. In un altro documento del 22 marzo 1327, oltre alla contrada, è espressamente citata la “platea publica de Ballarò”, ossia il pubblico mercato.

Quest’ultimo in origine era costituito da un’unica strada stretta, ma con atto stipulato presso il notaio Giacomo Randisio il 13 giugno 1467, il Senato palermitano acquistò alcune case ivi esistenti per poterle demolire ed allargare la “piazza”, impegnandosi a pagare un censo annuale ai rispettivi proprietari. Dopo l’esecuzione di queste opere, il mercato si sviluppò in lunghezza, tra il monastero di Santa Chiara e il Convento della Madonna del Carmine, per 120 passi (62 metri circa), mantenendo però la larghezza di soli 13 passi (6,70 metri).

Lo storico Tommaso Fazello, nel descrivere il quartiere dell’Albergheria, racconta: «l’altra parte della città, o l’altra regione si chiamava l’Albergheria, e ritiene ancor oggi il nome, nella quale era la piazza del mercato, che con voce saracina era chiamata Segeballarath come appare ne’ privilegi di quei Re, e nelle pubbliche tavole, ma essendosi a poco a poco corrotto il vocabolo dalla mortalità de’ Francesi insino al mio tempo si chiamò Ballarò».

Su tale assicurazione è stato tentato un esame etimologico del nome “Ballarò”. Michele Amari, a tale proposito affermava: «Balhara, che è scritto Balarah nei documenti latini sino al tempo di Guglielmo II nel XII secolo era un villaggio di musulmani vino al sito ove questo monarca innalzò la magnifica cattedrale di Monreale. Uno dei mercati di Palermo, nel quartiere il più vicino a Morreale, chiamasi Ballarò. Fazello ci assicura che alcuni secoli prima di lui si nominava Segeballarath. Era questo il mercato in cui i giardinieri di Balhara venivano a vendere i loro prodotti? Io mi arresto qui, per ciò che è pericoloso il troppo abbandonarsi alle etimologie quando si deve divinare la pronunziazione araba colle nostre lettere, che la rendono tanto male».

Soltanto un’ipotesi quindi, ma sempre l’Amari, annotando lo stesso testo di Ibn Hawqal nella Biblioteca arabo-sicula, faceva presente che «alcuni geografi arabi danno questo nome ad un’altissima catena di montagne a settentrione dell’India e che Balhara era anche il titolo di un principe indiano». Anche in base a queste ultime considerazioni recentemente è stata avanzata l’ipotesi che il suq di Balhara fosse un mercato in cui confluivano anche varie mercanzie e spezie provenienti dall’India, e che il suo nome possa quindi ricordare il titolo del principe che governava il luogo di provenienza di quelle merci.

Come per gli altri mercati, nel 1761 venne eseguita la perimetrazione annonaria anche di quello di Ballarò. Nel 1784 il viceré Caracciolo decise di renderlo più funzionale facendovi costruire tutto intorno dei portici, analogamente a quanto era stato fatto per quello della Bocceria Vecchia ma fu costretto ad abbandonare l’idea poiché la larghezza della “piazza” non l’avrebbe consentito e si correva quindi il rischio di ridurre lo spazio scoperto ad un semplice budello.

Nel 1794 si pensò di trasferire il mercato nell’attigua e più ampia piazza del Carmine, ma anche ciò non venne attuato poiché «li gravi interessi che vi subivano li padroni delle case e botteghe, che terminando di essere botteghe di piazza, nobilmente decadevano di rendita, furono i motivi , che distolsero il governo dal mandare ad effetto il pensiero, di cui era autore il presidente di giustizia Giovan Battista Paternò Asmondo».

Fu successivamente raggiunto un compromesso, limitandosi a sviluppare il mercato della piazza di Ballarò anche nella vicina piazza del Carmine. In quest’ultima, nel 1929, fu costruita una grande tettoia metallica, rimossa circa venti anni fa.

Nel 1943 la cortina edilizia occidentale della piazza Ballarò venne quasi totalmente distrutta dai bombardamenti aerei, ma nel dopoguerra essa venne subito ripristinata sebbene limitatamente alle sole botteghe, sicché l’attività del mercato poté riprendere.

Analogamente al mercato del Capo, quello di Ballarò non ha risentito dello spopolamento del mandamento Palazzo Reale in cui si trova, dato che su di esso hanno continuato a gravitare i quartieri dell’espansione meridionale della città.


 
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