Ungheria: dall’emergenza sanitaria alla crisi dei diritti umani

 
 

Di questi tempi, si fa un gran parlare di guerra contro un virus che si insinua silenziosamente ed eroi in camice, di emergenza sanitaria e studi scientifici, cure e vaccini. Tuttavia, la salute fisica dell’essere umano non è l’unico elemento in gioco. L’attuale pandemia, in molti casi, sta agendo come un test, mettendo alla prova non solo i sistemi sanitari dei singoli Paesi e la risposta delle organizzazioni internazionali, ma anche la loro capacità di reazione da un punto di vista politico e sociale.

Tuttavia, la situazione emergenziale dettata dalla diffusione del virus non può essere considerata l’unico elemento che ha portato allo scoperto le reali intenzioni di leader carismatici. Nel caso ungherese, con il primo ministro Viktor Mihály Orbán, questa si è rivelata il pretesto per portare a compimento un percorso di repressione dei diritti umani iniziato almeno dieci anni fa.

Il 30 marzo scorso, con 137 voti a favore, 53 contrari e zero astenuti, il parlamento ungherese ha approvato una nuova legge che autorizza l’esecutivo a governare, ai sensi dello stato d’emergenza, attraverso decreti senza alcuna data di scadenza, privando di fatto il parlamento stesso della possibilità di controllo sull’operato dell’esecutivo e mettendo a tacere qualsiasi voce contraria proveniente dall’opposizione.

Una svolta drastica, ma forse non imprevedibile. Che l’Ungheria sia stata trasformata – più o meno repentinamente – in una democrazia illiberale non è di certo una novità né una sorpresa: riduzione della libertà di stampa, chiusura delle frontiere, criminalizzazione dei migranti e stato di crisi dovuto all’immigrazione di massa che si protrae ininterrottamente dal 2015, rifiuto di concedere la parità dei diritti alle coppie omosessuali perché – come dichiarato dallo stesso primo ministro – «una mela non può chiedere di essere chiamata pera», dimenticando che i protagonisti demonizzati sono tutti esseri umani.

Se il governo ungherese – nella persona di Orbán – procede a passo svelto e sicuro, pur sempre con cautela e una certa strategia che sembra funzionare per i suoi obiettivi, l’Europa proprio non riesce a stargli dietro.

Nonostante l’insorgere di diversi Stati membri contro queste misure e la palese violazione da parte dell’Ungheria del Trattato sull’Unione Europea (TUE) – e in particolare dell’articolo 2 che sancisce i valori fondamentali dell’UE, quali il rispetto della dignità umana e dei diritti umani, della libertà e della democrazia – ciò non ha portato alla ragionevole sospensione di parte dei diritti dello Stato stesso, come previsto dall’articolo 7 del TUE.

Come se questo non bastasse, il primo ministro ha declinato l’invito del presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, a presentarsi in plenaria giovedì 14 maggio per discutere delle misure adottate al fine di contrastare l’emergenza Covid-19. «Oggi la lotta contro l’epidemia consuma tutta la mia energia e la mia forza». Una dichiarazione formalmente inattaccabile, e in parte rispondente alla realtà. Viktor Orbán è davvero stremato da una lotta nella quale investe ogni risorsa a propria disposizione: quella contro i diritti umani.

Risale ai primi giorni del mese di aprile la promulgazione di una legge secondo cui le autorità non potranno più registrare sui documenti di identità il nuovo genere di qualsiasi persona che abbia cambiato sesso, facendola rientrare nei provvedimenti per la lotta al virus. Non potendo più cambiare i dati anagrafici sui documenti di identità, diventerà estremamente complicato per le persone transessuali godere degli stessi diritti delle coppie etero nel momento in cui volessero sposarsi o convivere con un partner di sesso diverso; senza dimenticare poi la paura e il senso di frustrazione nel doversi riconoscere in un nome e un genere – scritti nero su bianco – dai quali non ci si sente rappresentati né si vuole essere definiti.

La morsa si stringe anche intorno ai diritti delle donne, con la mancata ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Secondo l’esecutivo ungherese, per come è stato scritto, il testo favorirebbe l’immigrazione clandestina e la teoria gender dato che vincolerebbe gli Stati ad accogliere i rifugiati perseguitati per l’orientamento sessuale o per il loro genere, citando inoltre il termine “genere” in riferimento a «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini», con il conseguente effetto di smantellare quei presunti principi cristiani su cui il partito fondato da Orbán, Fidesz ha impostato tutta la propria propaganda.

Decisioni che destano preoccupazione, non solo tra i membri della società civile che vengono colpiti direttamente, ma anche tra coloro che devono garantire la piena funzionalità dello Stato di diritto. Tra questi, diverse ONG – in particolare Amnesty International – hanno espresso non pochi dubbi sulla legittimità delle decisioni per contrastare la pandemia. «Abbiamo bisogno di forti garanzie in grado di assicurare che ogni misura limitativa dei diritti adottata sulla base dello stato d’emergenza sarà strettamente necessaria e proporzionale per proteggere la salute pubblica. Questa nuova legge conferisce al governo il potere illimitato di andare avanti a forza di decreti in nome della pandemia» ha dichiarato David Vig, direttore di Amnesty International Ungheria, aggiungendo inoltre che «durante i suoi anni come primo ministro, Orbán ha presieduto a un arretramento dei diritti umani, ha aizzato l’ostilità nei confronti di gruppi marginalizzati e ha cercato di ridurre al silenzio le voci critiche. Autorizzarlo a governare per decreto significherà con ogni probabilità proseguire lungo quella strada».