Un cataclisma asimmetrico sui conti pubblici

 
 

Gli ultimi dati in ordine di tempo provengono dalla Nota Mensile dell’Istat. L’Istituto di Statistica ha rilevato come il primo trimestre abbia subito una contrazione del Prodotto interno lordo (Pil) del 4,7% rispetto al trimestre precedente. Nella Nota non sono ancora stati scontati gli effetti del lockdown del mese di aprile, che avranno un impatto economico ancora più incisivo sull’economia nazionale. Questi dati sono acquisiti e sono pesanti, per quanto non devastanti. Le previsioni, tuttavia, sono peggiori.

I dati peggiori per il nostro Paese e per l’Europa mediterranea vengono, però, dalle Previsioni Economiche di Primavera della Commissione Europea. Prima di analizzarne il contenuto è necessaria una premessa: queste previsioni si basano su uno scenario nel quale gli effetti della quarantena siano ristretti al primo semestre dell’anno, con un impatto leggero per il futuro. La stessa Commissione sottolinea come la realtà potrebbe essere decisamente più grave rispetto a quella delineata con effetti devastanti.

All’interno del documento è possibile osservare come dagli indicatori emerga una pesante situazione per l’intera Unione Europea (UE), ma con i Paesi del Mediterraneo in condizioni peggiori. In particolare Italia, Grecia e Spagna fanno segnare le performance più negative in termini di crollo (caduta è un eufemismo) di Pil con, rispettivamente, -9,5%, -9,7% e -9,4%. Leggermente migliori sono i dati francesi, con una riduzione dell’8,2%. La diminuzione del Pil dell’eurozona è in media del 7,7%. Questo significa che i Paesi non mediterranei vedranno una contrazione del Pil intorno al 6%, con una differenza di circa tre punti.

L’impatto della quarantena non si ferma soltanto al Pil: al contrario, gli effetti economici che riguardano la contrazione in tale settore si espandono verso altre aree chiave dell’economia, come la disoccupazione. Anche in questo indicatore si possono notare differenze fra area “core” dell’Unione Europea e parte “periferica”: i Paesi mediterranei sfonderanno il muro del 10% di disoccupazione (Italia 11,8%, Francia 10,1%), per toccare quasi il 20% in alcuni Stati membri (Grecia 19,9%, Spagna 18,9%); la disoccupazione nei Paesi della vecchia area del marco si fermerà a livelli più contenuti, con il 5,9% olandese, il 5,8 austriaco e, addirittura, il 4% tedesco.

Con questi presupposti macroeconomici, l’impatto sui conti pubblici non può che risultare devastante e del tutto asimmetrico. Bisogna tenere ben presente come quasi tutti i principali indicatori pongano al denominatore il Prodotto interno lordo e, quindi, una sua riduzione peggiora l’indicatore considerato volta per volta. Al contempo, la crisi economica spinge al massimo l’utilizzo dei cosiddetti stabilizzatori automatici (sussidi di disoccupazione, redditi universali, sostegno ai consumi, etc.), aumentando la spesa degli Stati in presenza di una contrazione degli introiti fiscali dovuti alla recessione, peggiorando ulteriormente la situazione. Secondo il documento della Commissione, il rapporto deficit/pil dei Paesi mediterranei si muoverà intorno al 10%, con il picco italiano dell’11,1%, ma con Spagna (10,1%) e Francia (9,9%) molto vicine. Unica eccezione in questa situazione risulta essere la Grecia, il cui rapporto si fermerebbe intorno al 6,4% grazie all’amaro calice delle politiche di austerità. La media degli Stati membri dell’eurozona si aggirerebbe intorno all’8,5% e questo rende ben chiaro come siano presenti Paesi con deficit molto più bassi, fra i quali la Germania (7%) e Olanda (6,3%).

Dati ancora peggiori arrivano per il rapporto debito/pil. Il nostro Paese vedrà un picco del 158,9%, la Francia del 116,5%, la Spagna del 115,6% e la Grecia del 196,4%. Alcuni Stati membri, al contrario, vedranno peggiorare le proprie condizioni, ma senza raggiungere queste vette: fra questi Germania (75,6%), Olanda (62,1%) e Austria (78,8%).

Palazzo Berlaymont, Bruxelles

Interpretando questi parametri, è evidente come una crisi sanitaria simmetrica lascerà strascichi economici asimmetrici nell’area dell’euro. Di questo si è resa conto la Banca Centrale Europea (BCE) che, col suo nuovo programma di quantitative easing, denominato Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), ha superato la logica degli acquisti simmetrici per sostenere i Paesi più in difficoltà, o sotto pressione, sui mercati. L’intervento della BCE ha permesso di alleviare il peso degli interessi di un debito pubblico che, per alcuni Stati membri, potrebbe divenire in breve tempo insostenibile.

Ma il fuoco previsto da tale istituzione europea non è sufficiente e, soprattutto, non è di lunga durata. Al termine del programma PEPP, i problemi potrebbero esplodere per i Paesi che hanno accumulato debito a causa della fine degli acquisti e della conseguente esplosione dei tassi su una massa di titoli enorme. Anche se gli Stati membri fossero in grado di sostenere l’ingente debito, la spesa per interessi drenerebbe una quantità di risorse elevate per la spesa pubblica di molti Paesi, risorse che verrebbero necessariamente stornate da altre voci di spesa, quali sanità o istruzione. Non bisogna sottovalutare, infine, gli effetti non del tutto chiari della recente pronuncia della Corte Costituzionale Federale tedesca (la Bundesbank sarà costretta a ritirarsi dai programmi di acquisto?), che rischia di minare alla base la fiducia nei mercati nei confronti delle misure dell’Eurotower.

Date le condizioni, le sole misure di politica monetaria non sono sufficienti: servono strumenti di politica fiscale a livello europeo, adatti alle dimensioni della crisi e asimmetrici, esattamente come i suoi effetti economici. Per quanto le azioni finora adottate in risposta alla pandemia siano preziose, esse sono però ridotte nelle dimensioni e calibrati su alcuni settori economici più che all’economia nel suo complesso. Nello  specifico, sappiamo che la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) fornirà prestiti per gli investimenti alle imprese, per un ammontare di circa 200 mld, rastrellati sul mercato a tassi di interesse inferiori, grazie al rating di tripla A di cui gode l’Istituto e alla creazione di un fondo di 25 mld “a chiamata” ad opera degli Stati.

Un altro strumento è il sostegno temporaneo derivante dal programma “Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency” (SURE), proposto dalla Commissione e al momento al vaglio dei Paesi dell’UE, il cui fine sarebbe sovvenzionare dagli Stati membri, attraverso dei prestiti per un ammontare complessivo di 100 mld, per la tutela dei posti di lavoro e dei lavoratori: sarebbe, cioè, un sostegno a quegli “stabilizzatori automatici” che verranno utilizzati a livello nazionale per supportare il reddito da lavoro. Un contributo a sostegno alle spese sanitarie, infine, potrebbe arrivare attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), sul quale è stato raggiunto un accordo di recente: esso non prevederebbe alcun tipo di condizionalità, eccetto per il vincolo che la spesa riguardi il settore sanitario (diretto o indiretto), per un ammontare complessivo di 240 mld di cui ciascun stato potrà richiedere, in prestito, il 2% del proprio Pil relativo all’anno 2019.

Come è possibile osservare, tutte le misure messe in campo si fondano su finanziamenti in prestito, che incideranno sull’ammontare complessivo del debito dei Paesi richiedenti, e cui sarà necessario corrispondere un interesse, per quanto inferiore a quello che gli Stati membri otterrebbero se si affidassero ai mercati autonomamente. L’impatto sui conti pubblici di tali misure sarebbe, comunque, importante e per i Paesi già altamente indebitati addirittura devastante.

Il complesso delle misure proposte dalla Commissione europea non è sufficiente: il totale ammonta a poco più di 500 mld di euro, una goccia nell’oceano della crisi economica. L’unica soluzione che sembra prospettarsi all’orizzonte è quella del Recovery Fund. Al momento, però, circa la sua struttura e il suo contenuto si è deciso poco in sede di Consiglio Europeo, con l’eccezione della sua natura di risposta asimmetrica alla minaccia del Covid: «Il fondo dovrà essere di entità adeguata, mirato ai settori e alle aree geografiche dell’Europa maggiormente colpiti e destinato a far fronte a questa crisi senza precedenti». Circa la sua strutturazione, è stato dato mandato alla Commissione di presentare una proposta. Quello che da adesso in poi analizzeremo sono, quindi, spifferi e ipotesi su come potrebbe essere strutturato.

La prima ipotesi – forse quella che ha maggiore solidità al momento – è che a garanzia del Fondo dovrebbero essere messe le risorse del bilancio dell’Unione. Per quanto la soluzione sia razionalmente efficiente, questo comporterebbe alcuni problemi data la dimensione esigua delle risorse del bilancio, che corrisponde a poco più dell’1% del Pil europeo. Per risolvere questo problema, le risorse del bilancio potrebbero essere usate a garanzia di fondi da raccogliere sul mercato da parte delle Istituzioni europee, quindi con un generoso effetto leva potrebbero raggiungersi le dimensioni necessarie per il continente, nell’ordine di una cifra fra i 1000-3000 mld di euro.

Il problema è come poi la Commissione dovrebbe stanziare queste risorse. A tal riguardo, ci sarebbe nuovamente una divaricazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa: per i primi, le risorse dovrebbero essere erogate attraverso dei prestiti da restituire nel lungo periodo da parte dei riceventi; per i secondi, la Commissione dovrebbe farsi carico da sola della restituzione delle somme prese a prestito attraverso il proprio bilancio e concedere a “fondo perduto” le risorse agli Stati che ne facessero richiesta. La questione non è assolutamente di lana caprina: nel primo caso, infatti, l’indebitamento dei Paesi continuerebbe a crescere appesantendo ulteriormente le spalle dei paesi già duramente colpiti dalla pandemia; nel secondo caso, al contrario, a farsi carico del debito sarebbe l’UE nel suo complesso, senza aggravi per le dissestate casse pubbliche dei paesi.

Se si accettasse una struttura nella quale gli Stati membri debbano ulteriormente indebitarsi per accedere alle risorse del Fondo, oltre a quelle del MES, l’indebitamento pubblico esploderebbe ben oltre le percentuali attualmente previste. Un’ipotesi per l’Italia del superamento del 160% non sarebbe peregrina, al netto di un tasso d’interesse che, grazie all’intervento della garanzia delle Istituzioni Europee, sarebbe più basso di quello che otterrebbe da sola. Ecco, quindi, che la soluzione con l’Unione che si fa carico del peso della risposta, ottenendo magari una seppur limitata voce in capitolo sul modo in cui le risorse verranno dispiegate, non solo è auspicabile, ma è l’unica sostenibile. Diversamente si starebbe solo comprando tempo e, al termine della crisi, i Paesi dovrebbero far fronte al nuovo indebitamento a suon di avanzi primari e tagli di spesa, mandando l’economia in profonda recessione. Speriamo che la razionalità e la solidarietà europea prevalgano perché l’UE non sopravvivrebbe a uno scenario di crollo da parte degli Stati membri più indebitati.


 

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