Terapie riparative, la barbarie contro la comunità LGBT

A ridosso della Giornata internazionale contro l’omofobia del 17 maggio, la Germania ha messo al bando le cosiddette terapie riparative (o terapie di conversione), cioè quelle pratiche tutt’altro che scientifiche che mirano a cambiare l’orientamento sessuale delle persone LGBT.

Questo provvedimento, fortemente voluto dal Ministro della salute tedesco Jens Spahn, ha lo scopo di impedire imposizioni coatte su minori da parte dei familiari e vieta esorcismi, indottrinamenti e qualsiasi altra forma di imposizione coatta di un orientamento sessuale alle persone LGBT.

L’annuncio dell’approvazione di queste leggi fa riflettere sul fatto che si parla poco di questo fenomeno, sviluppato da medici e sessuologi all’inizio del XX secolo e ancora diffuso a livello globale. Terapie prive di fondamento scientifico che si fondano sullo stereotipo secondo cui l’unico orientamento sessuale accettato dalla società sia quello eterosessuale e che dunque chi non si identifica in tale orientamento debba essere curato e “normalizzato”.

Il “riorientamento” avveniva attraverso pratiche chirurgiche e farmacologiche tra le quali ricordiamo: lobotomie, elettroshock su mani e genitali, somministrazioni di ormoni e ipnosi. Queste terapie sono diventate meno “estreme” grazie all’esclusione di alcune pratiche che, tuttavia, sono state sostituite con altre, come il ricondizionamento alla masturbazione e visualizzazioni mentali finalizzate a manipolare gli istinti verso le persone dello stesso sesso. Gli effetti di queste pratiche sono devastanti: tra gli altri, depressione, abuso di sostanze stupefacenti, senso di colpa, ansietà, isolamento e tendenza al suicidio.

Le prime denunce di queste terapie risalgono ai moti di Stonewall (1969), quando ancora l’omosessualità era classificata nei manuali di medicina e di psicologia come una malattia mentale. I movimenti per i diritti gay successivi a Stonewall puntarono i riflettori sui centri di sanità mentale statunitensi, pubblici e privati, e sulle terapie di conversione da loro attuate.

L’aumento della visibilità della comunità LGBT e la rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali dell’OMS (1992) non ha comunque portato all’abolizione di queste terapie che continuano ad essere praticate, tentando però di non creare scalpore nell’opinione pubblica. Negli ultimi anni la comunità internazionale ha dimostrato di avere più consapevolezza su questo tema e, proprio a causa della minore evidenza di questo fenomeno, ha cercato di puntare nuovamente il riflettore su queste terapie.

L’associazione Arcigay, in Italia, ha spesso denunciato l’esistenza di terapie di conversione praticate da alcune associazioni cattoliche come Courage Italia, associazione riconosciuta dalla chiesa cattolica che si presenta come “un apostolato cattolico romano per uomini e donne che vivono attrazioni dello stesso sesso”.

Sergio Lo Giudice, presidente onorario di Arcigay, ha affermato che questa associazione «vende [queste pratiche] come interventi non sull’identità omosessuale ma sul disagio provocato da queste pulsioni che non vogliono essere omosessuali […] Ma una persona che non vuole essere omosessuale non è altro che una persona che sente su di sé lo stigma sociale del gruppo di riferimento, spesso proprio quello religioso».

Maria Sjodin, vicedirettore esecutivo di OutRight Action International, ha affermato, durante un’intervista a Open Democracy, che c’è il rischio che queste pratiche possano diventare sempre più diffuse, dal momento che «il mondo sta diventando, a livello generale, più consapevole delle identità LGBTQI e le persone promuovono queste terapie come risposta».

Con l’evoluzione della società e il mutamento dell’opinione pubblica, infatti, molti gruppi di terapie riparative hanno cambiato nome e nei loro documenti ufficiali tendono a utilizzare un linguaggio neutrale e più improntato sui diritti umani; allo stesso tempo, l’avvento della nuove tecnologie (incluse le app) ha reso più semplice per queste organizzazioni entrare in contato con giovani LGBT.

Partendo da queste premesse nel 2019 l’organizzazione Outright Action International ha pubblicato un rapporto sulla diffusione delle terapie riparative nel mondo evidenziando l’estrema attualità di queste pratiche. Fino ad oggi, soltanto 5 Paesi hanno completamente vietato queste terapie (Taiwan 2018, Malta 2015, Ecuador 2014, Brasile 2018) e altri hanno attuato divieti parziali come, ad esempio, il divieto di attuarle sui minori (in 18 stati degli Stati Uniti).

Nel 2018 il Parlamento Europeo ha condannato le terapie di conversione con 435 voti a favore e 109 contrari, invitando gli Stati membri a mettere al bando queste pratiche barbare: tuttavia gli unici Stati che hanno legiferato per vietare queste pratiche sono Malta, alcune regioni della Spagna e la Germania. Altri paesi europei, come Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Francia, Austria, stanno discutendo sull’opportunità di vietarle.

E in Italia? Nel 2016 proprio Sergio Lo Giudice, allora senatore, ha presentato con altri 17 senatori un disegno di legge per vietare queste terapie, che prevedeva la reclusione fino a due anni e multe fino a 50 mila euro per chiunque ne faccia uso al fine di modificare l’orientamento sessuale di un individuo. Questo disegno di legge, molto simile alla legge approvata in questi giorni in Germania, purtroppo non è mai stato discusso.

La messa al bando delle terapie riparative in Germania, però, ha dato vita a un nuovo dibattito: Possibile, tramite la sua campagna permanente sui temi della comunità LGBT, ha pubblicato un appello indirizzato ai ministri Speranza, Bonetti e Lamorgese affinché anche in Italia si segua l’esempio della Germania poiché queste pratiche rappresentano uno dei sintomi di discriminazione che i membri della comunità LGBT subiscono ogni giorno, ledendo la loro dignità e i loro diritti umani.


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