Sudan, le mutilazioni genitali femminili diventano reato

Secondo la World Health Organisation (WHO) sono circa 200 milioni le giovani donne e bambine vittime di mutilazioni genitali femminili (Mgf) nel mondo. Africa, Medio Oriente e Asia sono i paesi dove queste sono maggiormente diffuse e ciò è dovuto al legame che intercorre fra queste pratiche barbariche e i retaggi culturali e religiosi ben radicati all’interno delle varie comunità locali.

Con il termine mutilazioni genitali femminili si tende a generalizzare una serie di atti consistenti in incisioni e lesioni ai danni degli organi genitali femminili, praticate fuori da ogni logica terapeutica o medica e fortemente connesse a motivi tradizionali e religiosi. L’esistenza di queste pratiche è carica di significati culturali e consiste in veri e propri rituali miranti a deturpare le facoltà riproduttive delle giovani donne.

I rituali brutali a cui queste bambine e ragazze sono sottoposte nella maggior parte dei casi, contro la propria volontà o contro quella dei genitori, mirano a segnare il cambiamento e il passaggio dall’età infantile a quella adulta, marchiando la maturità riproduttiva delle ragazze, ormai pronte ad assolvere il loro “ruolo” di mogli e madri.

Le mutilazioni genitali femminili sono un fenomeno complesso e l’astrusità della questione è da ricondursi all’eterogeneità di tali consuetudini, alla loro diffusione e agli aspetti che esse possono avere, agendo più o meno invasivamente sulla vita psichica e fisica delle giovani donne. La World Health Organisation ha classificato e distinto le mutilazioni genitali femminili in quattro gruppi ben definiti in relazione alla loro severità:

– la circoncisione o “sunna”, che consiste nella rimozione totale o parziale del clitoride stesso;
– l’escissione, che prevede la rimozione del prepuzio e del clitoride, con asportazione parziale o totale delle piccole labbra;
– l’infibulazione, che consiste nell’asportazione parziale o totale dei genitali esterni e nel restringimento dell’apertura vaginale;
– infine la quarta categoria che comprende diverse pratiche dolorose come la circoncisione del clitoride, l’incisione della vagina, la cauterizzazione, il raschiamento e altri interventi simili.

I rischi associati all’esercizio di queste pratiche sono molteplici e possono contemplare conseguenze immediate o di lungo termine che vanno dalla febbre per infezioni a problemi connessi alla minzione, emorragia, shock, alterazioni e problemi connessi al ciclo mestruale, dolori durante i rapporti sessuali, complicanze durante il parto con il conseguente aumento delle probabilità di subire interventi chirurgici futuri, senza poi contare i gravi e irreparabili danni psicologici.

Le mutilazioni genitali femminili costituiscono così una chiara violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne e tali pratiche sono da considerare come lesioni volontarie compiute da parte dei membri “forti” e influenti di un gruppo, che si sentono legittimati, dall’assenza di leggi o dalla presenza di consuetudini culturali e religiose, a perpetrare quelli che vengono considerati veri atti di tortura.

L’identità di un gruppo o l’esistenza di pratiche culturali e religiose che condizionano la vita del singolo individuo, appartenente a quella realtà culturale, può far sì che il diritto all’autodeterminazione dello stesso sia sopraffatto e soggiogato dal persistere di consuetudini, in questo caso barbare, alle quali il singolo soggetto è chiamato a conformarsi. Il diritto all’autodeterminazione, in questo contesto, deve essere associato al diritto delle donne di prendere decisioni personali riguardanti il proprio corpo e la propria salute sessuale e riproduttiva, senza che queste siano poi sottoposte a trattamenti denigratori o discriminanti.

In Africa, tuttavia, diversi sono i Paesi che vantano un triste primato nell’esecuzione di questa pratica. In Somalia il numero dei casi di donne che subiscono mutilazioni genitali femminili è pari al 98 per cento; segue l’Egitto, col 91 per cento. In Sudan, l’esecuzione di questa pratica, perpetrata ai danni di ragazze e donne di età compresa fra i 15 e 49 anni, è prevalentemente concentrata nel nord del Paese, con un totale pari a circa l’88 per cento.

Le mutilazioni genitali femminili in passato sono state vietate in alcuni stati sudanesi, anche se la pratica ha continuato ad essere diffusa ed i divieti ad essere ignorati. Solo recentemente però, il Paese, dopo una lunga campagna di criminalizzazione contro queste pratiche, ha introdotto un emendamento al codice penale che ne vieta apertamente l’esercizio.

La formale criminalizzazione e penalizzazione di un’usanza così diffusa, oggi, è diventata strumento deterrente per chiunque fosse intenzionato a praticare lesioni e mutilazioni genitali femminili. Chiunque sarà considerato colpevole di un tale crimine sarà punito con la reclusione fino a tre anni e il pagamento di una multa: questa è la pena stabilita finora per tutti quegli atti che rientrano nella categoria.

Un tale cambio di rotta deve essere inteso come un progresso diretto a tutelare la salute e le facoltà riproduttive di bambine e donne, rispettando così anche i loro diritti. Ciò è stato possibile solo grazie alle prospettive auspicabili di una transizione politica in senso democratico in atto già dallo scorso anno. La destituzione di Omar al Bashir – ex presidente sudanese in carica per ben 30 anni, accusato di crimini contro l’umanità e genocidio – avvenuta in seguito ad un golpe organizzato dalla giunta militare e supportato da proteste di massa è stato infatti il primo grande passo avanti per il paese africano.

Il Sudan post al-Bashir sta attualmente affrontando una fase di importanti mutamenti interni che necessitano di tempo e supporto. Questi, infatti, se canalizzati nella giusta direzione potranno avere risultati concreti nel lungo termine. Il riconoscimento delle mutilazioni genitali femminili come reato costituisce senz’altro uno di questi rinnovamenti interni; tuttavia per giudicare se questa spinta democratica perduri, bisognerà attendere e monitorare la situazione interna del Paese al fine di valutare se, effettivamente, quest’ultimo sarà in grado di far rispettare il divieto e punire ogni trasgressione contro la legge.