Riaprono i musei, ma siamo davvero pronti?

 

Cos’è il museo? La definizione tecnica dell’ICOM (International Council of Museums) recita: «Un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto». È inoltre una «struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio» come si legge nell’articolo 101 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in materia di codice dei beni culturali e del paesaggio.

Il museo non è solo questo ovviamente. È di certo un contenitore di cultura e di documenti del nostro passato, della nostra storia, tramite oggetti e immagini che portano con sé valori di altri tempi. Ma il museo è soprattutto un luogo. Un luogo come il museo è fatto di gente, di flussi, di masse (quando va bene).

Durante l’emergenza coronavirus, la chiusura dei musei, nello specifico, pare non abbia sortito lo stesso effetto della chiusura di un ristorante o di una catena di negozi. È passato in sordina, e con un pacato senso di ovvietà dato che “il museo è certamente luogo di assembramenti”.

Il museo è cambiato nel corso degli anni ed è cambiata la sua fruizione: abbiamo già parlato di musei come luogo preferito dei selfie di un certo “livello” culturale, di quelli che si aprono anche quando sono chiusi con le mostre virtuali o che ospitano esperienze nuove accogliendo artisti senza averne effettivamente le opere.

La riapertura dei musei stabilita per il 18 maggio si accompagna non solo alla speranza ma anche ai timori di molti musei, che per una riapertura a comando vedono tantissime difficoltà. Rispecchia pienamente questo concetto l’affermazione di Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze: «Non è come chiudere e riaprire un rubinetto». Sono molte le difficoltà, oltre alla drastica diminuzione dei fruitori. Le iniziative per garantire una fruizione sicura partono dalla possibilità di gestire dei gruppi con delle prenotazioni e quindi accedere a delle visite controllate in tutta sicurezza sia per il pubblico che per gli addetti ai lavori.

Gli ingressi contingentati potrebbero essere sfavorevoli per l’economia dei musei? In Italia molti musei come la Galleria degli Uffizi, i Musei Vaticani o la Pinacoteca di Brera sono letteralmente presi d’assalto. La grande affluenza e la “massificazione” del pubblico all’interno delle strutture non sono sempre un punto a favore dei musei, dato che puntano sempre a ricevere feedback positivi sulla qualità della visita.

L’ingresso smorzato potrebbe dare vita ad una nuova esperienza di fruizione del museo. Meno gente significa anche un godimento lento e libero delle opere, esperienza solitamente minata dalle corse frenetiche per schivare i gruppi. Un museo più sacro e silenzioso, non un mortorio, certo, ma un luogo di riflessione, quale è una delle sue mission principali.

E per i musei di arte contemporanea vale lo stesso discorso? Secondo una classifica dei 30 musei più visitati in Italia, non trovano spazio quelli di arte contemporanea come il Museo del Novecento di Milano, il MAXXI di Roma, il Museo Madre di Napoli o il Castello di Rivoli di Torino, per citarne alcuni. I numeri del 2019 parlano chiaro: le Gallerie degli Uffizi a Firenze con quasi 4,4 milioni di ingressi guardano dall’alto i 129 mila circa del Museo del Novecento di Milano (dati del report che va dall’ 1 gennaio al 30 giugno). Confrontando questi numeri con quelli “normali” in cui il flusso dei visitatori è libero, appare evidente come alcuni musei, anche lavorando con prenotazioni e limitando gli accessi alle sale, avranno un calo di ingressi a dir poco drastico, tenendo conto che parliamo di ingressi limitati all’ambito regionale. E dunque meno visitatori ma più spese per il museo, se pensiamo alle pulizie che saranno sempre straordinarie e più approfondite, lasciate nella maggior parte dei casi a ditte esterne.

Aprire potrebbe essere una mossa affrettata? Possibile. Forse l’idea di riaprire i luoghi di cultura funge da slogan motivazionale, un “ce la faremo” con una maggiore eco e, per l’Italia in particolare, un segno molto forte. Come per ogni altro settore, si parla di una realtà non astratta ma concreta: si parla di persone a cui deve essere garantita la sicurezza prima di tutto. Si parla di ritorno alla normalità, allo svago, ma siamo sicuri che sia possibile? Mentre si parla di “normalità”,ì sarebbe il caso di affrontare il tema della nuova normalità, una condizione che di certo non potrà somigliare a quella che conoscevamo. Usciremo dal lockdown con le ossa rotte e – si spera – con un nuovo modo di vedere il mondo. Il museo potrebbe anche trasformarsi in un’enorme teca sigillata da guardare con l’ausilio della multimedialità. Molti non vogliono quello che a tutti gli effetti sembra un incubo distopico. La verità, però, è che dobbiamo cambiare noi.

Sui musei affollati lo scrittore Fabrizio Caramagna descrive una scena quasi poetica: «Mi immagino un topolino che la sera, usciti tutti dal museo, va a guardarsi un po’ in pace la Nike di Samotracia senza sentire i commenti di nessuno». In “Il cretino è per sempre” Carlo Fruttero e Franco Lucentini lanciano invece una provocazione: «La folla nei musei crea un inconveniente basilare (è difficile avvicinarsi materialmente ai quadri) e suscita l’eterna domanda: ma questi sono qui per Manet o per poter pensare e dire di aver visto Manet?». Un interrogativo resta: senza un pubblico il museo ha senso d’essere?