Noi, i ragazzi dello zoo di MSN: i reietti new age

 

Dirette streaming, stories, tutorial di ogni tipo: il lockdown ha esacerbato una tendenza già diffusamente in voga, l’esposizione della vita privata nelle vetrine dei social, nel disperato tentativo di accorciare il distanziamento sociale. È una corsa contro il tempo, quel tempo inarrestabile che scorrendo senza sosta, lascia indietro i più “reietti”. È il tempo dei social, delle community, delle vetrine online.

Protagonisti indiscussi di ogni minima corbelleria, ci mettiamo alla mercé di una piattaforma globale di utenti sconosciuti. E dire che chi scrive non ha settant’anni ed anzi meno di trenta. Certo è che questo mondo a me, come a tanti altri Nineties, sta parecchio stretto. Forse perché siamo la generazione “in between”, nati con un piede nel secondo millennio, catapultati in men che non si dica nel vortice Hi-tech, ormai sempre più alla portata di tutti.

I giovani dei Nineties sono nati con un solo telefono – quello fisso – per abitazione. Erano gli anni degli elenchi telefonici, i numeri appuntati in ogni dove e, per i più ordinati, un’agenda telefonica. Era il periodo in cui, a furia di pigiare e ripigiare, i numeri si imparavano a memoria e la rubrica era solo cartacea.

Solitamente posizionati al centro della casa, ben in vista e di passaggio, le chiamate telefoniche non vantavano certo il privilegio della privacy, garantita soltanto dall’uso di una lingua in codice o da bisbigli confusi. Era il periodo di “Casa Rossi?”, “Parlo con Gianfranco?”, “Sono l’amica di Giulia, me la può passare per favore?”. Allora le chiamate si pagavano al minuto e anche lì – come per la televisione e la doccia calda – il tempo era denaro, tanto denaro. Il tempo era anche molto rigido, dettato da una sobrietà speciale di regole severe dei genitori.

I nineties hanno poi avuto un solo telefono mobile a famiglia – quello di dimensioni “stratosferiche” e con l’antenna – generalmente nelle mani prudenti e gelose dei genitori. Cominciando ad andare a scuola, la situazione ha iniziato ad essere più fluida: molti hanno avuto il cellulare già dalle elementari, in occasione delle gite scolastiche giornaliere che tanto mettevano in agitazione i familiari. Erano gli anni del Nokia 3310, quello che cadendo per terra rischiava di “rompere il pavimento”. La ciclicità del tempo ci veniva ricordata da Snake, il gioco del serpente che gira e rigira in un piccolo quadrato, costantemente a rischio di mordersi la coda.

I cellulari continuavano a costare ancora tanto così come i piani tariffari. Pertanto siamo la generazione dello squillo e delle abbreviazioni, orribili a pensarci ma di importanza strategica. Xk, cm, cmq, vb, tvb: geroglifici immondi diffusamente tacciati di ignoranza. In realtà, proprio perché i caratteri a disposizione nella casella dei messaggi erano limitati – circa 160 – le parole erano lì non solo abbreviate ma anche misurate. Occorreva essere sintetici, puntuali nelle parole utilizzare – occorreva evitare messaggi di spiegazione a parole inesatte o grammaticalmente scorrette – ed evitare dispersioni di contenuto. Oggi lo chiameremmo “il dono della sintesi”, ieri era l’esigenza di non sforare i 160 caratteri col rischio di pagare un ulteriore SMS.

Anche quando il cellulare ha iniziato ad essere un po’ più smart, i prezzi dei piani tariffari rendevano ancora lento l’accesso alle comunicazioni veloci. Il cellulare costituiva, più che quella connessione strategica, la possibilità di scattare delle foto, ascoltare della musica e dilettarsi con i giochi messi a disposizione dall’azienda telefonica.

All’innovazione tecnologica fece seguito la diminuzione dei costi non solo dei beni ma anche dei servizi. Il costo legato ai consumi di chiamate telefoniche, SMS, MMS e poi internet è notevolmente diminuito negli ultimi 20 anni, così come ridotto è il costo di telefoni cellulare, computer, pc e tablet. Un abbassamento dei costi ha reso l’accesso al mondo Hi-tech pressoché universale.

Un giorno qualcuno ha messo in moto la catena dei piani tariffari a pacchetto: 4 mila messaggi al mese; minuti illimitati; “centomila” Giga; all inclusive e così via. Da quel momento il consumo è diventato compulsivo e la sequenza degli avvenimenti è iniziata ad essere estremamente rapida, così come rapido doveva essere l’adattamento. Abbiamo finalmente perso il vizio di orribili abbreviazioni – i messaggi illimitati ci permettono oggi di scandire una frase di quattro parole in quattro diversi messaggi – ma, con minuti e messaggi illimitati, utili solo ai call center, ci sentiamo in dovere di consumarli tutti.

Il primo contatto con una piattaforma social fu la chat di MSN che successivamente, nel 2008 – in Italia quantomeno – venne sostituita da Facebook. Oggi la quantità di apparecchi tecnologici, di network e piattaforme social mi è sconosciuta. Sicuramente molto più di quanto la mia voglia di aggiornarmi mi permette di immaginare.

Credo nel potere indiscusso della rete: la possibilità di informarsi, informare, confrontarsi e creare connessioni, diffondere, divulgare, rendendo tutto ciò alla portata dei più. Un tempo l’istruzione era un privilegio dei pochi abbienti che potevano permettersi il lusso di studiare e aggiornarsi. Oggi, questo aspetto è stato progressivamente universalizzato. Quello che mi preoccupa invece è l’assopimento quasi totale delle nostre menti e della nostra fantasia di fronte a un mostro che risucchia il tempo e il bello attorno a noi.

Ore passate sui social in un batter d’occhio. La venerazione dell’idolo che ci fa credere di essere tutti uguali. L’autocompiacimento nel ricevere i like. I social come vetrina alla portata di tutti, in cui ciò che importa è quello che mostri e come ti mostri. L’apparire rispetto all’essere. Quello che mi preoccupa è l’incessante flusso di input a cui siamo sottoposti e a cui ci è chiesto di adattarci. Quello che mi preoccupa è chi – per fattori prettamente anagrafici – non avrà la possibilità di confrontarsi con quello che fino a due decenni fa era la normalità, e ritenere tutto ciò preistorico. Quello che mi preoccupa non è l’uso ma l’abuso e la facilità con cui riusciamo a vendere (o regalare) la nostra immagine (e le nostre informazioni) a migliaia di sconosciuti. Proprio coloro che non avranno un termine di paragone, riterranno tutto ciò normale, continuando a mercificare la loro quotidianità in piattaforme virtuali e facendo del loro mondo una vetrina social.


 

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