Giovanna Botteri: competenza e vanità

Nata a Trieste il 14 giugno 1957, Giovanna Botteri era una bambina con il grembiule bianco, la cartella rigida sulle spalle, le dita tinte d’inchiostro e i capelli spettinati. Figlia di Guido Botteri, ex Direttore della sede Rai friulana, e di madre montenegrina, dopo il diploma si laureò in Filosofia per poi conseguire un dottorato in storia del cinema alla Sorbona di Parigi.

Nonostante le sue previsioni fossero di segno opposto, la passione per i romanzi di Danilo Kis e una buona dose di intraprendenza la condussero, proprio allora, sulla strada che ha poi continuato a percorrere instancabilmente per circa quarant’anni: quella del giornalismo. Volendo a tutti i costi incontrare lo scrittore, Giovanna infatti decise di contattarlo attraverso la sua casa editrice italiana spacciandosi per una reporter e proponendogli un’intervista. Ottenuto il via libera, armata solamente di un vecchissimo registratore, lo tempestò di domande, realizzando improvvisamente di essersi imbattuta nella sua vera vocazione: incontrare persone straordinarie, viaggiando attraverso le loro storie.

Quando nel 1985 entrò in Rai il mondo era in ebollizione. Alessandro Curzi, l’allora Direttore del tg3, decise di inviarla nei Balcani per documentare il processo di disgregazione della Jugoslavia. Sapeva infatti che la Botteri conosceva bene quell’area geografica, avendo trascorso le estati della sua infanzia insieme alla madre in Dalmazia. Quei luoghi, quelle città ormai devastate dal conflitto e dalle tensioni interetniche, restituirono alla giornalista una sorta di cartina al tornasole dell’immenso dolore e della forza distruttiva sprigionati dalle guerre.

All’inizio si vergognava di confessare a sé stessa o agli altri le proprie paure. A Sarajevo, tuttavia, i cecchini le impartirono la sua prima, vera, lezione da inviata speciale: si deve avere paura, perché questo aiuta a riconoscere il pericolo, a prevenirlo, a difendersi; aiuta a essere prudente. Una paura incontrollata è invece nemica del lavoro che svolge l’inviato di guerra e impedisce di fornire un’informazione onesta e realistica.

giovanna botteri sarajevo
Funerale di un civile ucciso a Sarajevo (1992)

 Il 1994 fu un anno durissimo per la Botteri. Prima la strage del pane, con la gente che aspettava in fila. Poi i bambini che scendevano dalla collina, uccisi da un colpo di mortaio, quindi la strage del mercato, in cui morirono 80 persone. Tra tante tragedie, una scena soprattutto rimase stampata nei suoi ricordi. Vide improvvisamente, nel bel mezzo di una trincea, tra i cadaveri dei soldati abbandonati, alcuni sacchetti di un grande magazzino di Trieste.

Ricordava, da bambina, di aver visto di fronte a quello stesso negozio lunghe file di sloveni, croati, serbi, macedoni e bosniaci in cerca di jeans americani, caffè e bambole. Come in una sorta di mondo alla rovescia, in cui si perde ogni confine tra realtà e finzione, quell’immagine da sola riuscì a spazzare via la sua infanzia e, con essa, ogni possibile idea di sicurezza.

Quello dell’inviato di guerra è, di certo, un mestiere rischioso, che espone al sangue e al marcio, all’immondizia e alle macerie. Si soffre la fame, ci si trova spesso in situazioni di pericolo, ci si misura continuamente con i limiti del giornalismo, ma alla fine la passione del raccontare in presa diretta prevale su tutto: è un dovere etico, un servizio reso all’opinione pubblica.

A partire da quella prima esperienza vissuta a Sarajevo, Giovanna Botteri viaggiò per il mondo, documentando la guerra in Kosovo, la fame in Africa, l’inizio dei bombardamenti su Baghdad, il G8 di Genova, il rovesciamento talebano in Afghanistan, la seconda guerra del golfo in Iraq e ottenendo, tra l’altro, numerosi premi e riconoscimenti per il suo immenso impegno.

Soprattutto acquisì l’amore per le storie minime, quelle che tutti conoscono perché sono le storie quotidiane dei bambini, delle donne, della casa, del cibo, della paura, della luce e della notte. Sono le storie universali, quelle che la gente può condividere anche laddove sembra essere venuta meno ogni capacità di comprensione e perdono.

La guerra non poteva essere raccontata con le grandi battaglie ma come un fatto umano e per questo ancora più terribile. Guardava, allora, la telecamera con gli occhi di chi ha perso tutto e raccontava ai suoi spettatori il disprezzo che le suscitavano determinate vicende, evitando appositamente le sterili elencazioni dei morti senza volto che portavano sempre con sé il rischio di una quotidianità che non dovrebbe mai avere nulla di ordinario. Ai numeri ci si abitua; alle storie umane, no.

Probabilmente, proprio questa sua ribellione costante nei confronti di ogni spettacolarizzazione del dolore rappresenta la traccia più profonda e nitida di un giornalismo che adesso non esiste più e che lei stessa ha visto mutare sotto i suoi occhi, senza però restare mai vittima di tale cambiamento.

L’esplosione mediatica degli anni 2000 ha infatti sbalzato i cronisti dritti nel mondo dello spettacolo. Improvvisamente si è fatto un uso indiscriminato della diretta, senza rispetto della dignità dei fatti e con buona pace della genuinità dell’informazione. L’avvento delle fake news dimostra chiaramente la scarsa importanza attribuita adesso al racconto della verità cui fa riscontro una generazione di giornalisti spesso politicizzati e scarsamente preparati, che vendono la notizia ad un pubblico di riferimento ben delineato. Non conta più l’indagine, basta solamente dimostrare di esserci stati.

Se si tengono ben presenti i tratti somatici di questo nuovo giornalismo, è facile comprendere perché oggi Giovanna Botteri, e come lei tanti altri prima, sia costretta a subire attacchi che nulla hanno a che fare con la propria capacità e il proprio impegno. La pratica del cosiddetto body-shaming non è che un effetto della ormai poca dimestichezza del pubblico italiano rispetto ai concetti di senso del dovere e professionalità. Siamo infatti tutti, chi più chi meno, abituati ai palcoscenici della vanità più che al silenzio e alla dignità di chi fa bene il proprio lavoro.


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