Fontana Pretoria, un costosissimo capriccio finito nel centro di Palermo

 

Se c’è un luogo che può rappresentare il “centro esatto” del Capoluogo siciliano non può che essere Piazza Pretoria, un’icona non solo cittadina ma dell’intera Regione. La celebre piazza palermitana, antistante la sede del Comune, non è solo una folla ignuda che ha generato la sua denominazione popolare di «Piazza vergogna», non è un “monumento come tanti altri”: è un mosaico di integrazioni, simbologie, stili e leggende diversi.

Il nome della fontana che domina la piazza deriva banalmente dal palazzo Pretorio, letteralmente «il palazzo del pretore», figura di rilievo pubblico che attraverso i secoli, dai magistrati romani ai viceré, è arrivato oggi ad essere impersonato dal sindaco. L’area interessata è dunque la più prestigiosa della città, quella dove un tempo risiedeva il Senato palermitano. Prestigio chiama prestigio.

La fontana però non è sempre stata «pretoria». Realizzata nel 1554 da Francesco Camillani a Firenze, doveva servire a impreziosire un giardino, ma non uno spazio qualsiasi. Si trattava della nuova proprietà del luogotenente Luis Álvarez de Toledo y Osorio, una lussuosa villa costruita su un terreno strappato alle suore del convento di San Domenico al Maglio. Don Luis Álvarez poteva permettersi di accaparrarsi un terreno di proprietà ecclesiastica; d’altronde era uno dei figli del viceré di Napoli Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, uno dei governanti più duri che la città partenopea ricordi. Papà Pedro non volle per il figlio solo una sfarzosa fortezza per proteggerlo ma anche un costosissimo e faraonico abbellimento. Fu lui a commissionare direttamente al Camillani la fontana. La struttura era troppo grande persino per la villa: per l’imponenza il progetto sembrava destinato a uno spazio pubblico, dove troverà di fatto successiva collocazione.

La complessa opera d’arte comprendeva in origine ben 48 statue rappresentanti figure mitologiche e putti. Ai giochi d’acqua, che caratterizzavano le diverse vasche, si giungeva percorrendo una lunga pergola – un “corridoio” ombreggiato, di quelli coperti di rampicanti magari – formata da ben 90 colonne di legno. Un insieme ben diverso da ciò che vediamo nell’odierna idea di “piazza monumentale”.

Il complicato trasferimento dell’intera struttura avvenne vent’anni dopo la morte di Don Pedro, nel 1573. Proprio il destinatario del generoso regalo paterno, Luis, paurosamente indebitato, dovette mettere in vendita la fontana. Non sappiamo quanto sia stata difficile la separazione affettiva da un rifugio tanto prezioso; quel che sappiamo è che trovò un compratore, non uno qualunque: un altro dei figli di Don Pedro, Garcia, che era stato anni prima viceré in Sicilia e aveva mantenuto ottimi rapporti col Senato palermitano. Indovinate chi convinse a comprare il prezioso capolavoro marmoreo del fratello squattrinato? Difficile porre la questione in termini di “fortunate coincidenze”, soprattutto se stiamo parlando del XVI secolo.

Portata a termine la trattativa fra il Senato palermitano e Don Luis, la fontana venne smontata in 644 pezzi e caricata sulle navi per essere trasportata a Palermo. La fontana non arrivò mai completa: alcune sculture vennero infatti danneggiate durante il trasporto ed altre vennero trattenute dal proprietario. Ci sono alcune teorie su alcune statue rimaste conservate qua e là a Firenze, ma sta di fatto che a Palermo ci si adoperò subito per la sostituzione di queste. Gli equilibri dell’opera dovevano rimanere intatti. Si possono notare diversi stili, quelli delle diverse mani che hanno lavorato sulla fontana. A Palermo curarono la “ricomposizione” Camillo Camillani, figlio d’arte dello stesso autore della fontana, e Michelangelo Naccherino, quest’ultimo riconoscibile per lo stile quasi caricaturale, a tratti tendente al goffo.

Alla conclusione dei lavori si conteranno in tutto 37 statue di cui 24 divinità, 12 a comporre i quattro gruppi dei fiumi e un putto posto nel piano superiore della struttura. È il numero 4 a farla da padrona: i quattro fiumi personificati hanno subito un “aggiornamento” alla versione palermitana. In origine i quattro eleganti soggetti fluviali erano il Nilo, il Nilo azzurro, il Nilo bianco e l’Ippocrene. Nell’adattamento compiuto dal poeta Antonio Veneziano troviamo rispettivamente il Papireto, il Maredolce, l’Oreto e il Gabriele (chiamato anche Conigliera). I quattro corsi d’acqua, allora e da diversi secoli, costituivano importanti approdi naturali nel golfo palermitano e rappresentavano gli elementi vitali della città, che ne caratterizzavano la struttura e andavano quindi esaltati. Quattro erano anche i quartieri principali della città storica divisa dalle quattro strade che si diramano dai Quattro Canti. Infine, in quattro è anche la ripartizione della vasca anulare della fontana. I lavori finiranno nel 1581, sei anni dopo il posizionamento delle prime sezioni della fontana – adesso sì – Pretoria.

Le leggende collegate alla “scandalosa” permanenza della fontana sono molteplici. Una fra queste narra che le monache di clausura della Chiesa di Santa Caterina (importante edificio che insiste su uno dei lati della piazza) erano costantemente mortificate dalle oscenità delle sculture. Fu per questo che – secondo la tradizione popolare – protette dal buio della notte, evirarono alcune indecenti sculture.

Un’altra parla della regina Giovanna II d’Angiò (1371-1435) e della sua fama di donna lussuriosa. Giovanna sarebbe stata ritratta come una delle statue della fontana, in particolare quella sdraiata in compagnia di un cavallo (uno dei quattro gruppi fluviali raffigurante la Naiade con Pegaso). Si racconta – sempre secondo racconti popolari molto fantasiosi – che la regina, oltre a uccidere i suoi amanti, fosse arrivata a unirsi sessualmente all’animale proferendo la celebre frase «stanca sì, ma sazia mai».

Al centro Euterpe, musa della musica coronata d’alloro insieme a Pegaso Russell James Smith

La piazza fu dunque da subito “vittima” delle attenzioni, nel bene e nel male, del popolo palermitano, che la identificò subito come il simbolo della corruzione, della vanità e dell’immoralità del potere cittadino. Palermo, che nella sua storia ha visto tantissime rivolte, alcune molto sanguinose, non dimenticò mai il duplice significato del suo centro di marmo: ancora oggi i palermitani vi fanno riferimento chiamandola “Piazza vergogna” in memoria delle massiccia presenza di nudi, certo, ma anche dello sperpero del pubblico denaro di questa meravigliosa follia.


 

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