Bioetica di inizio vita e diritti delle donne: intervista al Prof. Luciano Sesta

 

In questi mesi di pandemia il tema dell’interruzione volontaria di gravidanza (Igv) è tornato al centro del dibattito sociale. Le rinnovate difficoltà derivate dal distanziamento sociale e dalle relative restrizioni applicate in moltissimi Paesi del mondo hanno fatto parlare del coronavirus come di un nuovo ingombrantissimo ostacolo per l’accesso all’opzione abortiva.

Dalla Polonia agli Stati Uniti, nelle passate settimane, si sono riaccesi focolai di polemiche a proposito di possibili modifiche alle leggi che disciplinano l’inizio vita vigenti in questi Paesi, polemiche che – come spesso accade – si nutrono di stereotipi e slogan politici che lasciano poco spazio ad una riflessione di più ampio respiro sul tema. Deporre le “armi” ideologiche qualunque sia il proprio pensiero in materia è il primo passo per poter cogliere gli spunti di riflessione, interessanti e profondi, che il professore Luciano Sesta ci ha lasciato in questa intervista.

Il professore Sesta insegna Filosofia e Storia nei licei statali ed è docente a contratto di Bioetica e di Filosofia Morale presso l’Università di Palermo. Numerose sono le sue pubblicazioni sul tema, tra le quali segnaliamo Esiste davvero un’alternativa tra “pro-choice” e “pro-life”?

Professore, cosa significa essere pro-life oggi? Il diritto alla vita nega i diritti che oggi in buona parte del mondo sono finalmente riconosciuti alle donne?

«Storicamente, la posizione pro-life ha sempre dato la cattiva impressione di voler difendere i diritti dell’embrione e del feto “contro” il diritto della donna alla libera scelta. Eppure la “vita” che il pro-life intende proteggere e promuovere è non solo quella del nascituro, ma anche quella della donna che lo porta in grembo. La stessa legge 194/1978, che in Italia regolamenta l’aborto, si presenta come un aiuto alla maternità, nella consapevolezza che la richiesta di interrompere la gravidanza è spesso dettata da condizioni difficili, che non lasciano altra scelta alla donna. Si pensi alla mancanza di un partner, ai problemi economici e psicologici, ai conflitti con un datore di lavoro non disposto a tenere una dipendente in gravidanza, alla necessità di accudire altri membri della famiglia, etc. Limitarsi ad assecondare la richiesta di aborto, da questo punto di vista, significa privare la donna di ogni alternativa, rendendo più pressanti i problemi che la inducono ad abortire, oltre a sgravare la società dal dovere di risolverli. Eppure l’art. 5 della legge 194 prevede che la donna sia messa “in grado di far valere i suoi diritti […] di madre”, fra i quali c’è senz’altro il diritto di risolvere i propri problemi senza dover spezzare il legame di protezione che, non solo nel corpo ma anche nella psiche, si è ormai stabilito fra lei e il figlio che porta in grembo. Una società che abbia realmente a cuore i diritti di una donna incinta, insomma, dovrebbe rimuovere tutti quegli ostacoli psicologici ed economico-sociali che, spesso, rendono l’aborto più una triste necessità che una libera scelta.»

Entrando nello specifico, tra le posizioni cosiddette “Pro-life” e “pro-choice” è possibile tracciare una terza via?

«Certamente è possibile. La vita del nascituro dovrebbe essere sempre protetta insieme alla madre, mai contro di lei. In fondo ogni essere umano nasce non “contro”, ma “grazie al” volere di una madre. Purtroppo il linguaggio dei diritti e dei doveri, enfatizzato dalle prospettive pro-choice e pro-life, ha l’effetto di concentrare unilateralmente l’attenzione ora sulla figura della donna ora su quella del feto, mettendo di fatto l’una contro l’altro. La donna non è un semplice “contenitore fetale”, né il nascituro può essere ridotto a una mera “appendice” del corpo materno. Quando discutiamo di aborto parole come “donna” ed “embrione” o “feto” sono delle pericolose astrazioni “maschili”. Ciò che abbiamo concretamente di fronte, piuttosto, è una donna incinta. E cioè una donna che dev’essere aiutata, anche da chi l’ha resa madre, se è possibile, a fare una scelta giusta, soprattutto perché le principali conseguenze di tale scelta è la donna stessa a doverle scontare, nel bene e nel male».

Volendo mettere a confronto in maniera provocatoria il tema dell’aborto con quello dell’emancipazione femminile, la disposizione ad accogliere la vita che si chiama maternità è naturale o culturale? E qualora questa sia anche culturale è possibile parlare di educazione all’accoglienza della vita? Oggi questo genere di educazione è una priorità? Come giudica lo status quo sia a livello sociale che istituzionale?

«L’essere umano è un animale culturale per natura. Per questo la maternità, come tutte le esperienze umane fondamentali, presenta aspetti sia naturali sia culturali. Esiste certamente una predisposizione biologica alla maternità, che però è più o meno condizionata da fattori culturali. Si pensi alla cultura child-free, in cui alcune donne rivendicano la loro emancipazione dal modello della donna-madre, affermando che la maternità non dev’essere intesa come destino biologico, ma come scelta personale. D’altra parte, troviamo le tante sofferenze delle donne che non riescono ad avere figli. Ed è certamente paradossale che i figli spesso arrivino quando non li si cerca, mentre non vengano quando li si desidera. In quest’ottica risponderei alla domanda dicendo che sì, un’educazione alla maternità è decisamente una priorità, sociale e istituzionale. Educare alla maternità significa educare a ciò che ci sorprende, che non sempre è come avremmo creduto o voluto. Significa educare alla capacità di mettersi in ascolto dell’altro, di colui che, non avendo voce, potrà esprimersi, all’inizio, solo grazie alla nostra disponibilità a prestargli la nostra. E questo vale, naturalmente, tanto per il figlio che (ormai) c’è, tanto per quello che (ancora) non c’è e che, forse, non ci sarà mai. Educare alla maternità significa anche, e soprattutto, educare a “perdere il controllo della situazione”, ad accettare, cioè, che un figlio non è mai “qualcosa” che facciamo o non facciamo, ma sempre “qualcuno” che incontriamo. La vera libertà, non solo femminile, ma anche maschile, è non farsi ricattare dall’ansia di tenere tutto sotto controllo, dal timore di sbagliare, di soffrire, di non essere all’altezza. È la libertà di pensare alla propria possibile genitorialità come a un’esperienza molto più ricca delle nostre limitate aspettative. Dal punto di vista sociale e istituzionale questa educazione dovrebbe partire dalle scuole, dove spesso i temi della sessualità e dell’affettività sono “mal-trattati”, perché ridotti a un insieme di raccomandazioni igieniche su come evitare gravidanze indesiderate. In questo modo, però, non si intercettano le grandi domande di senso dei giovani e, soprattutto, si mortifica il loro desiderio di avventura, di cui è parte integrante anche il sogno di poter avere un figlio con la persona di cui ci si innamora».

Ma quindi l’aborto è definibile un diritto?

«A rigor di termini, anche negli Stati che lo hanno legalizzato, l’aborto, più che un vero e proprio diritto, è un male minore rispetto a quello clandestino. Per meglio capirlo occorre tornare al problema dell’obiezione di coscienza. A ogni diritto, anche individuale, corrisponde un dovere da parte di un’istituzione o di altri individui. C’è dunque un diritto solo se, dall’altra parte, esiste qualcuno che ha il dovere di garantirlo. Ora, però, mentre l’obiezione di coscienza è un “diritto” a cui corrisponde il “dovere” di rispettarlo da parte dello Stato, l’esecuzione di un aborto non è un “diritto” a cui corrisponda un “dovere” altrettanto inderogabile. Che non si possa costringere una donna a proseguire la gravidanza né un medico a interromperla, significa che lo Stato dà la possibilità di abortire, ma non che esista un obbligo, da parte di qualcuno in particolare, di eseguire l’intervento. Ciò è dimostrato dalla stessa legge 194, per la quale il dovere di assicurare il servizio è soddisfatto non già costringendo un medico eventualmente obiettore a praticare una Ivg, ma mediante la mobilità del personale (art. 9), ossia garantendo una ragionevole distribuzione di personale obiettore e non obiettore. Nel caso estremo in cui in una determinata struttura non vi fossero medici disponibili a praticare un’interruzione di gravidanza, né si possa tempestivamente dirottare la paziente in altro luogo, lo Stato non potrebbe costringere alcun singolo operatore sanitario a intervenire contro la propria coscienza. In tutte legislazioni che ammettono l’obiezione di coscienza del personale sanitario, di conseguenza, l’aborto non è un “diritto”, dal momento che, se lo fosse, nessun medico potrebbe rifiutarsi di praticarlo. Se vi fosse un diritto di ottenere l’aborto, in effetti, qualunque medico che si astenesse sarebbe penalmente perseguibile per omissione di soccorso. La donna ha senz’altro diritto di rivolgersi allo Stato per ottenere ciò che lo Stato, in generale, garantisce. Ma poiché lo Stato agisce sempre tramite i singoli che esso delega, quando a questi ultimi è riconosciuto il diritto di astenersi da ciò che lo Stato in generale garantisce, l’effetto, un po’ paradossale, è che in realtà non esiste un “diritto” a ottenere quanto lo Stato dichiara di garantire. Per la legge 194, dunque, la donna ha il diritto di chiedere un aborto, ma non di ottenerlo da uno specifico operatore».

Come la mettiamo con la pretesa di un aumento numerico dei medici non obiettori nelle strutture ospedaliere che garantiscano l’accesso all’Igv? Lo stato può avanzare pretese sulla coscienza del singolo o tentare di “formare” fin dall’università medici non obiettori?

«In base a recenti dati forniti dal Ministero della Salute, sembra che in Italia quasi il 70% dei ginecologi, il 50% degli anestesisti e il 45% del personale ausiliario sia obiettore, con una distribuzione territoriale piuttosto disomogenea. Una situazione che, evidentemente, rende più costosa e complessa l’erogazione del servizio, sia per l’alta concentrazione di richieste a carico dei soli medici non obiettori, sia per un maggior ricorso a prestazioni “a gettone” per i trasferimenti di non obiettori, con l’ulteriore allungarsi delle liste di attesa e il conseguente rinvio dell’intervento. In un simile quadro, bisognerebbe evitare ogni discriminazione fra medici obiettori e medici non obiettori. Quasi tutti gli Stati del mondo, infatti, hanno legalizzato non solo l’aborto, ma anche il rifiuto medico di praticarlo. Permettendo al personale medico di astenersi, per motivi di coscienza, dal praticare aborti, lo Stato riconosce che l’interruzione della gravidanza è un’azione moralmente controversa, sulla cui legittimità non tutti sono d’accordo. Vedendo nell’aborto legale un male minore rispetto a quello clandestino, lo Stato ne garantisce l’erogazione a certe condizioni. Da questo punto di vista, il tentativo di bilanciare, con l’aumento di medici non obiettori, la presenza di personale non obiettore, è certamente legittima, ma non può spingersi, a mio avviso, fino al punto di formare sin dagli studi universitari personale non obiettore o, peggio ancora, fino a scoraggiare la specializzazione in ginecologia e ostetricia a candidati obiettori.  Anche nel caso in cui per professioni come ostetricia e ginecologia venisse assunto personale esclusivamente non obiettore, niente esclude che si possa cambiare idea, come talvolta avviene. Ci sono non pochi casi di medici inizialmente non obiettori che, in seguito, lo sono diventati. Per questo una legge sull’aborto che non prevedesse un diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario si esporrebbe al rischio di essere dichiarata incostituzionale, com’è avvenuto qualche anno fa in Spagna. E anche nel nostro Paese, l’obiezione di coscienza è un valore di rango costituzionale (Sent. 43/1997). In mancanza di personale medico disposto a praticare l’intervento abortivo, il dilemma posto dall’obiezione di coscienza non è facilmente risolvibile. E infatti: o si costringe la donna a rinunciare all’interruzione di gravidanza, o comunque a rinviarne l’esecuzione – con i disagi e le complicanze che ciò comporta – oppure si obbliga il medico a compiere un’azione che egli in coscienza rifiuta. Direi che, dal punto di vista morale, non possiamo fare nessuna delle due cose. Non nel senso che sia indifferente che una donna abortisca o non abortisca, visto che, ovunque vi sia una donna incinta, è sempre preferibile che il bambino nasca piuttosto che essere abortito. Ma nel senso che nessuno può costringere fisicamente né una donna a portare a termine la gravidanza né un medico a interromperla. Per quanto si possa essere convinti di dover proteggere la vita del feto o il diritto della madre ad abortire, infatti, non dovrebbe essere lecito evitare un’ingiustizia altrui commettendone una noi».

In conclusione, il cosiddetto “diritto alla vita” può essere declinato in prospettiva laica o si fonda solo sul concetto di “sacralità”? In altri termini, la sacralità della vita è solo un principio religioso e dunque valido solo per i credenti o c’è di più?

«In effetti il concetto di “sacralità” evoca un ambito religioso, inducendo a credere che a favore della vita siano prevalentemente i credenti, mentre i laici, o non credenti, sarebbero a favore della libertà di scelta delle donne. Si tratta di un’immagine distorta del problema. Non solo perché a sostegno dei diritti del nascituro troviamo tanti non credenti, ma anche per ragioni di carattere scientifico, morale e giuridico. Un essere umano non ancora nato, sia in fase embrionale sia in fase fetale, è oggi facilmente osservabile mediante microscopio ottico e sonde ecografiche. Il suo aspetto biologicamente umano è evidente. Questo ci autorizza anche a riconoscergli gli stessi diritti che riconosciamo alle persone già nate? Se tutti gli esseri umani hanno la stessa dignità e gli stessi diritti in quanto sono umani, sì; se, invece, diciamo che a embrioni e feti mancano alcune caratteristiche affinché possano essere considerati pienamente umani, il discorso imbocca una direzione pericolosa.  Nella storia, infatti, gli esseri umani sono stati spesso discriminati sulla base del fatto che non possedevano certe caratteristiche, stabilite da un gruppo di potere che, guarda caso, invece le presentava tutte. Un tempo a essere discriminati e privati di ogni diritto erano gli schiavi. Poi sono state le donne, i neri, gli ebrei, gli omosessuali, ecc. Nello scorso secolo, ma ancora oggi in alcuni ambienti, troviamo l’ideologia WHASP (white, heterosexual, anglo-saxon, protestant). Nella storia ci sono sempre state categorie di esseri umani guardate con sospetto da altri esseri umani, e sempre sulla base di particolari condizioni o caratteristiche che essi avevano o non avevano. Ebbene, è innegabile che ancora oggi sia fortemente presente un’ideologia discriminatoria non soltanto nei confronti degli immigrati e degli stranieri, ma anche di quei particolari ospiti indesiderati che sono gli esseri umani non ancora nati. L’argomento liberale che si appella al primato della scelta femminile per giustificare l’aborto, a pensarci bene, si basa sulla stessa logica razzista che giustifica le frontiere chiuse. È la logica proprietaria dello spazio inviolabile, da preservare dal pericolo della contaminazione, rappresentato dall’ospite indesiderato, dallo straniero, che non parla la lingua dei nostri progetti, che minaccia il nostro benessere, che viene respinto “per il suo bene”, perché non può essere “integrato”. Che si parli dell’immigrato o del feto, si tratta dello stesso identico esorcismo. Una chiara dimostrazione, questa, che a imporci il dovere di proteggere gli esseri umani non ancora nati non è affatto una visione religiosa particolare, ma una preoccupazione umana universale. L’unica, io credo, che ci impedisce di ricadere nella barbarie di una civiltà che chiama “progresso” l’ingiustizia di cui non si accorge. Esattamente come hanno fatto le civiltà del passato, dalle quali noi oggi, fieramente, prendiamo le distanze».

Foto in copertina Wei Hsu and Shang-Yi Chiu