Le produttrici palermitane di morte e l’antico business del veleno

 

Sono sospese tra realtà e leggenda le storie sui dispensatori di morte che provocarono la misteriosa dipartita di migliaia e migliaia di persone in tempi remoti. Alcuni di questi produttori di veleno si sono trasformati in personaggi mitici, altri sono addirittura narrati come “eroi” della propria epoca. La “Palermo dei veleni” ha condannato, nei secoli, donne e uomini a una morte orrenda poiché il mestiere del venditore di morte liquida era considerato uno dei più esecrabili che si potevano scoprire.

Una delle tante affascinanti storie è quella che racconta di un’avvelenatrice palermitana vissuta nel XVII secolo, famosa nel mondo per la diffusione di un veleno trasparente e inodore chiamato acqua tofana. Giulia Tofana, una “figlia d’arte”, viene considerata da alcuni una giustiziera, un’eroina che agiva per il bene delle sue contemporanee poiché era quella “produttrice di morte” che permetteva alle mogli infelici di sbarazzarsi dei mariti.

Non sappiamo se le donne insoddisfatte acquistavano il veleno per eliminare il consorte violento, o ricco, o magari noioso, o forse solo antipatico. Non sappiamo neanche se le stesse accuse fatte alle avvelenatrici – dichiarate peraltro fattucchiere, streghe, sataniste, negromanti – nascondessero invece la volontà di eliminare delle persone semplicemente “scomode” per un motivo o per un altro. Il succo sta tutto qui: le “guerriere della giustizia sociale” come Giulia – se vogliamo forzare l’argomento col linguaggio contemporaneo – si arricchivano vendendo morte.

Giulia, secondo alcune fonti, era la figlia di Tofania D’Adamo, un’altra avvelenatrice che a Palermo si era già arricchita vendendo dosi di un suo intruglio mortale. L’acqua di Palermo – che, pare, fosse temuta persino al di fuori dei confini siciliani – divenne il nemico numero uno da annientare per i viceré siciliani, i quali negli anni Trenta del XVII secolo condannarono a morte oltre quaranta persone fra avvelenatrici, complici e collaboratori.

La casa di Tofania, in un vicoletto del centro storico, era meta di numerose e silenziose visite in cui avveniva la compravendita del prezioso intruglio. Tofania aveva già sperimentato l’acqua fatale su una cavia a lei molto vicina: aveva avvelenato il marito, Francesco. Verrà successivamente accusata di essere un’avvelenatrice e condannata a morte e la sua esecuzione sarà terrificante: lo strappo di pezzi di carne con tenaglie roventi e poi, riportata alle carceri della Vicaria, strozzata e appesa. Come venne riportato nelle cronache giudiziarie, il 12 luglio 1633 venne «squartata», «affocata» e «appiccata».

Tofania arriva per ultima in una lunga inchiesta che inseguiva il clan dell’avvelenamento. Era così orgogliosa – ed evidentemente, a un certo punto, con le spalle al muro – che dichiarò di essere la “maestra”, e non la semplice collaboratrice, di un’altra avvelenatrice condannata a morte diversi mesi prima e decapitata sul piano della Marina il 17 febbraio: Francesca Rapisardi.

Anche la Rapisardi, divenuta una vera e propria imprenditrice, era conosciuta a Palermo e richiestissima per l’eliminazione di amanti o rivali scomodi con l’ausilio di «un veleno diabolico in acqua». Proprio la morte di Francesca scoperchiò una fiorente industria del veleno a Palermo. A chiudere il triangolo dello “spaccio”del veleno, Placido Di Marco, l’altro complice dell’intera operazione: fu lui l’elemento che fece definitivamente sgretolare l’intero gruppo clandestino. Di Marco venne sottoposto alle terribili torture spagnole – la trazione dei suoi arti su quattro direzioni diverse – capaci di strappare un nome, quello della mente criminale al centro della combriccola criminale: proprio lei, Tofania D’Adamo.

Qualunque fosse stato il motivo per cui Tofania usò il veleno contro il marito – per “provare” il veleno o per l’infelicità del proprio matrimonio – sta di fatto che continuò a venderlo e ad arricchirsi dopo aver ucciso la prima volta. L’attività di famiglia andava così bene che la figlia, Giulia – e anni dopo anche la nipote Girolama, passata alla storia come “l’avvelenatrice di Trastevere” o “l’astroliga della Longara” – appresero la nobile arte culinaria della “morte in boccetta” e continuarono a produrla per una clientela di donne scontente sempre più ampia. Si arrivò alla definitiva formula dell’«acqua tofana», incolore e inodore, fin troppo facile da somministrare senza colpo ferire, e soprattutto senza destare sospetti. Per loro fortuna, allora non esistevano l’autopsia e l’esame tossicologico a testimoniare la causa certa di morte.

Intorno al 1640 Giulia emigrò a Roma da criminale in fuga dopo aver attirato troppi sospetti a Palermo. Pare che una sua cliente avesse ucciso “la concorrenza”, un commerciante genovese che poteva danneggiare gli affari di famiglia. Forse la cliente era stata incauta, forse qualcuno la vide; sta di fatto che Palermo si fece stretta per Giulia.

I ricchi prelati della Città Eterna affollavano i ricevimenti di Giulia a Roma, ma fu un certo Girolamo di Sant’Agnese, un frate speziale, a rifornirla della materia prima per proseguire la sua attività. Da commerciante quale era fiutò le potenzialità dell’arsenico per risolvere le solite diatribe matrimoniali o parentali che richiedevano la sua “professionalità”. Ma gli affari della Tofana, al contrario dell’urbe papalina, non furono «eterni». Nel 1659 venne impiccata a Campo de’ Fiori, a Roma, ma dopo anni di banchetti, bella vita e, ovviamente, una scia indefinita di morti avvelenati (si dice circa 600). La sua esecuzione non fu truce come quella della madre, ma l’esito fu comunque lo stesso.

Giulia resta nella storia come una delle assassine più prolifiche, elencata fra «le 100 donne più malvage della storia», affiancata ad altri storici assassini come Erzsébet Báthory – una sadica che venne accusata insieme ad altri suoi collaboratori di uccidere centinaia di giovani donne – o celebri personaggi come Catherine Monvoisin, la protagonista del cosiddetto “affare dei veleni” che scosse la Corte di Francia negli ultimi decenni del Seicento.

Fra le eredi storiche di Giulia Tofana è impossibile non nominare Giovanna Bonanno, nota come “la vecchia dell’aceto”, una leggendaria avvelenatrice in attività durante il XVIII secolo. Anche Giovanna (o Anna, a seconda degli errori di trascrizione nel tempo) veniva richiesta da donne infelici, mogli che volevano scappare con gli amanti senza scomodare violenti sicari. Fu un banale aceto contro i pidocchi a illuminare la mente criminale dell’avvelenatrice: lei invecchiava e accumulava denari, le vittime continuavano a morire di sciagurati malori, i clienti erano liberi come farfalle. Un business fiorente fino a quando fu scoperta e impiccata in piazza.

La Tofana venne rappresentata come la più grande criminale di tutti i tempi dal drammaturgo russo Michail Bulgakov che ne parla così in “Il maestro e Margherita”: «Una signora quanto mai affascinante e seria – bisbigliò Korov’ev – ve la raccomando: è la signora Tofana. (…) prendeva a cuore la situazione di quelle povere donne e vendeva loro flaconcini con una certa acqua. La moglie versava quell’acqua nel brodo del marito (…) dopo qualche ora gli veniva una sete fortissima, si metteva a letto e il giorno dopo la bella donna era libera come il vento di primavera».

La Tofana viene citata persino da un colosso della storia della musica come Wolfgang Amadeus Mozart, poco tempo prima di morire. Non vorremmo che una nostra concittadina sia artefice in qualche modo della morte di una personalità immensa del “mondo delle note”, ma la leggenda secondo cui Mozart avrebbe potuto essere avvelenato dall’acqua tofana ha dei tratti innegabilmente suggestivi. Anche se è stato Mozart stesso a dare avvio a questa voce, la sua morte per avvelenamento non contiene ad oggi fondamenti sufficienti. Le ricerche sui manoscritti di Mozart hanno però mostrato grandi quantità di arsenico, uno degli ingredienti più importanti dell’acqua tofana. “Materiale per romanzi”, si potrebbe dire.

Se consideriamo le avvelenatrici come “attiviste” che, diversamente da tutte le altre (e gli altri) del proprio tempo, hanno agito con un intento morale – in questo caso, salvare le donne dalla violenza dei mariti, difendere i diritti delle donne, uccidere i cattivi – oltre l’interesse economico, è bene chiarire che si sta sconfinando nel grottesco e nel mitologico. La critica contemporanea piega spesso a concetti recenti il significato di molte azioni – non solo quella delle avvelenatrici – alle convenienze ideologiche. Un’intera letteratura filosofica contemporanea professa la lettura della storia cercando di allontanare il più possibile il proprio sguardo dal contesto dal quale si giudica. Ebbene, il ritratto più veritiero resta uno solo: le palermitane Tofania, Francesca, Giovanna, Giulia, sono solo ignobili assassine.


 
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