Orwell e “1984”, il cult dell’inquietudine distopica

Eric Arthur Blair (vero nome di George Orwell) nasce nel 1903 nel Bangladesh sotto l’impero britannico, ma la famiglia torna nel Regno Unito nel 1907. Vive in una situazione di indigenza e ristrettezze, subisce discriminazioni di classe e questa esperienza sarà l’input iniziale per la nascita della sua fortissima coscienza di classe e adesione al socialismo, elementi che lo porteranno ad essere uno dei teorici di sinistra più interessanti del mondo della letteratura durante il Secolo breve.

Riesce a ottenere una borsa di studio e frequenta l’Eton College, fatto che gli consente di trovare lavoro come guardia imperiale. Ciò però genera in lui dei moti intimi: i conflitti interni dati dalla contraddizione da lui vissuta lo portano a cambiare nome in George Orwell e dare una svolta alla sua vita.

Lascia la guardia imperiale e si affianca all’attivismo socialista con lavori quali libraio, insegnante e giornalista della BBC. Proprio in qualità di reporter va in Spagna durante il Franchismo, ma finisce per unirsi ai socialisti nella lotta armata di resistenza; questo fa di Orwell non solo un teorico di sinistra, ma un vero e proprio guerrigliero attivista nel POUM, Partido Obrero de Unificaciòn Marxista (partito operaio per l’unificazione marxista), movimento anarcosindacale catalano.

Nel 1945 scrive “Animal Farm” (La Fattoria Degli Animali) che, sebbene all’apparenza possa dare l’impressione di essere una storia per bambini, è in realtà un’opera che mira a svelare i meccanismi “nascosti” che portano alla dittatura.

Il libro è una fortissima satira atta a spiegare le dinamiche dell’iniziale rivoluzione che si trasforma in totalitarismo, ed è un’aperta polemica contro Stalin, identificato, nella narrazione, in Napoleon. Osservando l’epilogo di una mobilitazione giusta (nello specifico la Rivoluzione russa del 1905), narra come nel corso della rivoluzione, i rivoluzionari diventano ciò che essi stessi combattono: desiderano l’autorità,  snaturano l’ideale e vanificano il meccanismo di affrancamento ed emancipazione.

L’assunzione che “chiunque abbia due gambe equivale ad un nemico” è un esempio di metafora, nemmeno troppo velata, volta ad esprimere la semplificazione estrema con cui questioni complesse vengono presentate alle masse creando così generici nemici comuni.

Animal farm: a fairy story” è stato inizialmente rifiutato da molti editori proprio perché rappresenta un attacco aperto e frontale allo stalinismo e agli stalinisti, allora alleati degli inglesi. La reazione disgustata di Orwell lo porta a scrivere The freedom of the Press, una vera e propria introduzione ad Animal Farm, tagliente e corrosiva: accusa ferocemente gli intellettuali di servilismo, di essersi genuflessi alla propaganda stalinista. Si scaglia con veemenza contro gli ipocriti che tollerano revisionismi di comodo e realtà travisate.

Il legame tra escalation di potere e consapevolezza della massa popolare viene quindi portato ad un livello successivo nel suo “1984”. Molto diverso da altri marxisti, Orwell voleva portare la scrittura politica tra le forme d’arte, avvicinandosi di fatto ad un piano estetico che rimanda all’Estetica di Hegel o alle riflessioni di Adorno, Brecht e altre figure del mondo dell’arte (a tal proposito consigliamo la lettura di questo libro).

Scritto nel 1948 (lo scrittore inverte le ultime due cifre dell’anno di pubblicazione), tre anni dopo Animal Farm, 1984 ha lo scopo apparente di mettere in guardia, un WARNING! che spiega i meccanismi con cui viene esercitata una certa “pressione” dal sistema, con la conseguente oppressione dell’essere umano che porta alla disumanizzazione e all’annientamento dell’individualità.

Il racconto è ambientato in “un mondo futuro prossimo”, diviso in tre superstati: Oceania, Eurasia ed Estasia. Questi superstati sono alternativamente alleati o nemici in una guerra perpetua. La storia si svolge in Oceania, terra governata da un solo partito, il Grande Fratello, in cui tutto è controllato costantemente da telecamere. Il protagonista è Winston,  l’antitesi del superuomo nietzschiano, con un dente finto e un problema di ulcera varicosa. La società è organizzata in classi: funzionari di alto rango, una serie di gerarchie più basse e in fondo – come al solito – la classe lavoratrice, che vive in quartieri separati.

Il testo si offre come un “Black Mirror” ante litteram in cui possiamo trovare nodi della società mai sciolti. Nella società distopica di Oceania è imposto il pensiero unico grazie al “Ministero della Verità”; eppure Winston trova un angolino cieco alle telecamere e inizia a tenere un diario, oltre ad innamorarsi e fare sesso con una donna, Julia, nonostante il sesso sia visto dal Grande Fratello solo come atto volto alla procreazione. I due verranno catturati e si tradiranno a vicenda.

A questo punto diventa cruciale osservare i due elementi centrali ed interconnessi, presenti nell’intera produzione letteraria di Orwell: la memoria e il linguaggio. Quando Julia e Winston vengono catturati, il partito applica, oltre a torture fisiche, un processo di condizionamento chiamato “la logica del Bispensiero” (in inglese Doublethink), secondo cui bisogna imparare a sostenere contemporaneamente tesi antitetiche: ri-apprendimento, comprensione ed accettazione per costruire una realtà alternativa.

Uno degli elementi che ci fanno parlare di distopia è proprio l’attacco alla memoria e al linguaggio; la prima, una parola inflazionata tra le ricorrenze politiche e usata troppo spesso in modo opportunistico e per pura propaganda nel mondo reale.

La memoria ha un ruolo centrale in “1984. La rimozione della memoria non è nemmeno da considerare solo una metafora; la dittatura del Grande Fratello non impone una nuova idea, un nuovo pensiero, magari usando la forza. Fa dimenticare, crea nuovi ricordi e quindi nuove identità, più adatte ai suoi “bisogni di sistema”. Fare tabula rasa della memoria fa in modo che l’individuo pensi che quella sia l’unica realtà possibile. Questa malleabilità darà l’impressione alle masse di essere indipendenti e pensanti, quando invece si trovano inerti davanti la propaganda.

Il linguaggio è un altro elemento chiave. L’autore analizza le tecniche reali per l’affermazione dei regimi. Ed è qui che si capisce il valore di un dettaglio: il protagonista, come atto di ribellione, scrive, usa il linguaggio come strumento di empowerment, come atto per esercitare l’espressione di sè e del libero pensiero.

In “1984” la lingua è stata modificata dal superstato: il linguaggio, Neolingua (Newspeak), è descritto da Orwell stesso come un linguaggio pensato per restringere la gamma dei pensieri, utile al mantenimento del potere centrale. Il linguaggio, infatti, è il mezzo che abbiamo per creare idee ed esprimerle. Se hai un linguaggio ridotto ed un vocabolario ristretto, i pensieri spariscono perchè, semplicemente, non è possibile farli nascere o formularli. Siamo davanti all’appiattimento della società che Winston proverà sulla sua pelle e che noi possiamo riconoscere nella società capitalistica odierna.

Il protagonista finirà per abbracciare il sistema, mostrando soddisfazione e gratitudine alla fine del racconto. In questo senso si affronta il tema dell’indebolimento sistematico della resistenza psicologica del pensiero dissidente e ciò rende questo testo un testo rivoluzionario in quanto anticipa i tempi dell’analisi e del metodo dei mass media. La validità dell’opera anticipatrice di Orwell resta inalterata nel corso del ventesimo secolo; ancora oggi è un libro che non accenna ad andare in pensione, appunto, un cult.

Lo scrittore usa scientemente la narrativa per le sue analisi sulla società, la politica teorica e militante, la filosofia, restituendoci un testo che trova la sua immagine riflessa nella società moderna.  Ci mostra le inquietudini di un futuro/presente dominato da un sistema che ci controlla, che indirizza le nostre scelte, anche con il nostro consenso, per una strategia mirata travestita da gattino. È quindi una sorta di premonizione? (Abbiamo già parlato della paura del futuro distopico che ci ha proposto Orwell e buona parte della fantascienza).

La sensazione che gli artisti siano la “Pizia” della società è probabilmente da ricondurre alla differenza di percezione della realtà data da una sensibilità particolare, un modo di osservare e vivere il mondo che distingue l’artista dalle altre persone e ci porta dritti al “mito della caverna”. Più probabilmente dovremmo parlare di un presente costruito sul consumo, in cui la persona diventa un consumatore che viene addestrato per stare dentro la “società del Capitale”.

Eppure anche l’arte è stata inglobata in questa logica, relegando l’artista a mero esecutore al soldo dell’industria creativa e culturale mainstream, quella che vende e fa incassi, declassando la cultura ad intrattenimento pop. L’illusione della “cultura per tutti” crea questo cortocircuito raccontato da Orwell e che, in qualche modo, ci fa vivere in una Oceania che non sappiamo riconoscere. Da 1984: «Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano… per sempre».