«Effetto Spears» (o di come mi mutilai la testa tagliandomi i capelli in quarantena)

 

Per “Lettera Q“, le testimonianze da un mondo in quarantena per l’emergenza coronavirus, pubblicate da Eco Internazionale ogni domenica.


A. D. 2020. In data xxx mi sono tagliata i capelli. Ovviamente l’ho scritto, per i posteri – o i postumi – scrivo tutto, figuriamoci se non dovevo scrivere questo. Inizialmente lo seppero solo gli amici più stretti, adesso, che importanza ha?

Il movente principale era una vaga scocciatura, una scontentezza esistenziale. Chiaro: libri, film, musica, ma ci si annoia in pandemia. Secondo, venne il rito di passaggio. La laurea, online, (proprio a me?), che è andata alla grande, baci abbracci e clap clap virtuali. Avevo infatti condotto la discussione con grande sicurezza e competenza, con i capelli lunghi fino alla vita, l’eyeliner e il rossetto. Indossavo perfino le scarpe.

Appena proclamata, mi guardai intorno. Avevo scelto nel mio studio la posizione più adatta: luce frontale, per attenuare rughe d’espressione – e sembrare un’ebete inespressiva, sì, ma competente, senza rughette, senza turbamenti emotivi, la cui assenza era chiaramente dettata da competenza – perché le persone serie non hanno emozioni; avevo evitato la mia abnorme cartina dell’Asia, una parete epurata, perché la cartina è sovietica, e del 1964, quindi il Bangladesh lì si chiama Pakistan, e francamente, se me l’avessero chiesto, non avrei saputo dire come si chiami oggi il Tanganika, (forse Tanganika?); poi non volevo apparire politicizzata – si sa, la politica non è ben accetta nelle facoltà di Scienze Politiche, e men che mai comunista: non è sexy, e io sono pur sempre una donna fiera. Cosicché, dicevo, una parete epurata.

Sull’altra parete, una splendida cartina della Georgia economica, con deliziosi grafici a torta sui settori produttivi, pallini colorati sulle centrali idroelettriche, e follie fuxia e verde acqua qua e là lungo il Caucaso maggiore. Senonché questa parete non era bene illuminata, la cartina troppo in alto rispetto alla mia altezza da seduta, e tutto sommato, a vederla nello schermo mentre provavo le inquadrature, anche maledettamente storta. Cosa che mi tormenta ancora, visto che non me la sento di staccarla e riattaccarla come si deve.

Rimaneva dunque l’opzione libreria, anzi, libreria più porta: luce di taglio, drammatica, con ombreggiature da persona competente, e dietro porta e libreria. Ma quella schifezza di compensato dal prezzo al dettaglio contenuto, per le tasche degli intellettuali meno agiati, benché competenti, denunciava ignoranza e pressappochismo, e avrebbe gettato la mia competenza in un comodo fango di mediocrità e analfabetismo atavico da intellettuale per obbligo sociale, da turista della cultura – i più graditi a coloro che giudicano quantificando (per quelli di primo pelo: i professori che ti mettono il voto). La puttanella di compensato ha una capacità del 2% circa rispetto all’intera collezione di libri che posseggo e amo (e ho letto, tutti, ognuno di loro, con attenzione), e che allo stato attuale abitano dentro dignitosissimi scatoloni di cartone, accatastati in varie case altrui – così la parete con la sorella povera di “Billy”, di cui non ricordo neppure il nom de guerre per Ikea, è stata a sua volta epurata, senza neppure parlare del volgarissimo ruolo della porta.

Restava una sola opzione, la parete, “D”. Ospita solo una lavagnetta di sughero, che credo mi accompagni da quando sono nata, piena di buchetti subdoli perpetrati da puntine da disegno che infilzavano ricordi non richiesti, tipo foto di famiglia, cartoline di gente che non ricordi e scontrini della farmacia per detrarre le medicine dalle tasse – sempre troppo alte. La troppo bucata lavagnetta era venuta con me per ospitare i miei pizzini nello studio. Nella mia vita ideale, avrei evidenziato progetti, memento, presunte idee geniali arrivate nel dormiveglia, ma la lavagnetta si trova di fronte alla finestra, in tipica posizione di paranoia, pronta per le foto dei vicini che mi accuserebbero di satanismo vedendo il titolo di un film consigliato “il sacrificio del cervo sacro”. Peccato, non sarei mai stata una di quegli studiosi americani con disturbi psichici che scribacchiano equazioni su lavagne di lavagna, o che appuntano pensieri su post-it adesivi da attaccare alle pareti. No, avrei perso tutti i progetti, i memento, le idee geniali partorite in notturna, ma mai e poi mai li avrei lasciati fotografare a i vicini.

Così la mia lavagnetta di sughero è stuprata da puntine da disegno che infilzano icone sacre, disegni a penna biro regalatimi da amici “prima del Dpcm Covid-19” (grazie, vi amo), e locandine di mostre e cataloghi di case editrici fighe raccattate qua e là quando uscivo di casa. Non potevo certo laurearmi con una Madonna georgiana piangente alle spalle, o con quel santino che dovrebbe ritrarre Gesù, ma che vorrei far scrutinare a un esorcista, perché mi pare di provenienza non certificata (tipo Testimoni di Geova) e ha gli occhi troppo grandi, allora ne ho timore, ma non voglio staccarlo dalla sua puntina da disegno perché non voglio essere blasfema.

Così ho staccato la mia lavagnetta di sughero dal muro, e l’ho appoggiata al pavimento, fuori dall’inquadratura. E in quel momento ho provato massimamente la vergogna della falsità.

I capelloni scombinati, il trucco sbavato, il pigiama rosa, le mie Madonne tetre e i miei volantini della Columbia University poggiati a terra, le ciabatte di gomma del discount, l’odore di curry dei miei vicini del Pakistan orientale (Bangladesh, si?), le canzoni napoletane fuori dalla finestra, l’inizio del “lockdown” e il mio dolore atroce per un lutto assurdo – tutto spazzato via da una buona inquadratura e un po’ di eyeliner. Il mondo andava a rotoli, ma io dovevo laurearmi.

Dopo la pantomima – mi dispiace chiamare così la conclusione di non so quanti anni di studio appassionato e fruttuoso – dopo la messinscena, tutti sorridevano. Nessuna sbavatura. Ogni riferimento emotivo era puramente casuale, oppure strumentale, così accettabile – come quando ti fanno vedere i bimbi con le pance gonfie e le mosche sugli occhi per farti commuovere e sganciare soldi. Invece, mentre sbraitavo infervorata – ma competente – sulla mancanza d’acqua in certe zone del mondo, io lo sapevo che era vero, che quello è un problema reale, ignorato, gravissimo. Ma ero troppo magnificamente truccata, giovane, ben vestita, la mia figura si stagliava su uno sfondo ineccepibilmente vuoto, perché le mie parole – competenti – assumessero qualsivoglia sostanza.

Mi alzai, e andai in bagno a piangere. Fatto. Ottomila libri, viaggi, paper, saggi, dopo, ero “dottoressa” (di nuovo). Ero libera di prendere quel simulacro di cultura e pulirmici il naso colante, potevo arrotolarlo e fumarci dentro l’erbetta che anarchica cresce sui muri (visto che è fatto divieto di pascolare sui prati), potevo pavoneggiarmi con amici, parenti, conoscenti, o, come si usa dire oggi “congiunti” e disgiunti. Potevo utilizzare il pezzo di carta (virtuale) come lasciapassare per step successivi di carriera, sul lavoro, in accademia.

E invece ho afferrato le forbici. Mi sono tagliata i capelli, raso la testa. Prima dietro. Davanti ero ancora una donnetta truccata e supponente. Poi sopra. Avevo ancora frangetta e lunghezze frontali. Poi lungo le tempie, e infine la mia amata, amatissima, immancabile frangetta. Con quei cortissimi ciuffi e il trucco e gli occhi sconvolti sembravo una joker impazzita. Risolvere: lametta. Ho scoperto che non è facile radersi la testa. Ma poi ce l’ho fatta.

Sono passati xx giorni, e i miei capelli adesso sembrano quelli di un marine. Quindi, se vi chiedete come starebbe Nadia Savchenko col rossetto e i tacchi, vi manderò un selfie. Ma non tagliatevi i capelli, ragazze, vi prego. Se non altro perché diventare trendy sarebbe lo smacco definitivo per chi ha cercato di combattere la vanità dell’era dei social senza far male a nessuno, a parte che a sé.