Riapertura dei luoghi di culto, le ragioni del confronto

 
 
 

Il 26 Aprile, all’indomani del comunicato del presidente Conte sulle novità del nuovo DPCM relative alla graduale ripresa delle attività produttive e commerciali (la cosiddetta fase 2), la Cei (Conferenza Episcopale Italiana) ha manifestato attraverso un comunicato stampa disponibile sul sito ufficiale un aperto dissenso nei confronti della decisione di non riaprire le chiese per rendere nuovamente possibile la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche. Il comunicato, breve e perentorio, esprime l’esigenza, da parte della Chiesa, di poter riprendere la sua azione pastorale, invocando il diritto alla libertà di culto, sancito dall’articolo 19 della Costituzione.

L’impatto mediatico di questa presa di posizione ha scatenato una bufera di polemiche, dividendo l’opinione pubblica in due fronti, che si accusano rispettivamente di essere ultras dell’igienismo da un lato e untori bigotti dall’altro. Appare chiaro che certi titoli in prima pagina (primi tra tutti quelli di Repubblica, che si segnalano tra i più riduzionisti e stereotipanti) non abbiano per nulla aiutato a sviluppare l’anticorpo di un sano criticismo, capace di andare al di là di simili categorie sterili e denigratorie. Queste ultime rispecchiano ancora una volta lo stile del linguaggio politico contemporaneo e la divisione in amici e nemici che non lascia alle argomentazioni razionali lo spazio necessario al corretto sviluppo di un’opinione.

Ciò che la protesta della Cei mette in luce è l’essenzialità della liturgia nell’azione pastorale della Chiesa e di conseguenza nella vita del credente. C’è stato però chi ha fatto notare che proprio il coronavirus, escludendo tutti dalla liturgia, ha fatto saltare la tradizionale contrapposizione tra cattolici “praticanti” e non praticanti, fondata esclusivamente sulla partecipazione alla messa domenicale; ed è stata l’occasione per chiedersi se la pratica essenziale del credente si riduca a quella partecipazione (interessanti a questo proposito le osservazioni di Giuseppe Savagnone sul blog www.tuttavia.eu).

Esistono dunque due polemiche parallele che si sono intrecciate in questa vicenda: una interna alla riflessione del cristiano sul suo stile di vita rispetto alla fede (e sulla definizione di “pratica” cristiana), l’altra esterna, relativa alla questione del pericolo di contagio. Entrambe condividono un denominatore comune: interrogarsi sulla natura della liturgia.

A favore di chi preme per la riapertura è possibile affermare che il cristianesimo, diversamente da altre religioni, non può ridursi ad un vago spiritualismo intimista perché per dogma di fede si fonda sulla rivelazione di un Dio che si è fatto carne, un Dio-persona; dunque ha accolto nel suo stile relazionale con questo Dio la necessità di un incontro vivo che si esplica nella presenzialità del rito eucaristico e degli altri sacramenti (riconciliazione, battesimo, cresima, ecc.), che dunque non sono un semplice rito commemorativo ma un convivio reale.

La liturgia eucaristica, inoltre non è l’unica forma di quel “pane spezzato” che è per i cristiani “l’Emmanuele” (il Dio-con-noi): anche la liturgia della parola (la prima parte della messa) è interpretabile come un pane da spezzare, ossia come un elemento che concretizza la natura del Cristo come “via, verità e vita”. Questi tre attributi, infatti, sono anche riferibili alla parola e alla meditazione del sacerdote (omelia) che la “spezza” e la “distribuisce” in dono ai fedeli.

C’è poi la dimensione comunitaria, che è quella che trasforma la massa di fedeli in “popolo”, ed è indirizzata alla crescita spirituale nella vita quotidiana delle persone attraverso le innumerevoli iniziative che coinvolgono i gruppi giovanili, i cori, l’organizzazione degli oratori nonché delle classi di catechismo e cresima. Anche sotto questo profilo, che tuttavia esula dalla liturgia, è doveroso affermare che non si tratta di elementi accessori, subordinabili alla preghiera individuale, perché ancora una volta, la vocazione evangelica del cristianesimo si esprime per sua essenza nell’atto dell’annuncio e della condivisione. Anche i momenti di condivisione delle comunità sono dunque momenti in cui “si spezza il pane”, momenti in cui la presenza fisica coincide con lo scopo dell’azione: vivere da fratelli.

Da quando lo status quo ci ha costretti alla convivenza con il coronavirus occorre ragionevolmente mettere al centro la salute e la prevenzione del contagio. La decisione di sospendere prima lo scambio della pace durante la messa e poi definitivamente la partecipazione fisica è stata una decisione doverosa che la Chiesa necessariamente ha dovuto rinnovare accanto al lockdown imposto dalle istituzioni governative. Oggi, con la riapertura, i nodi al pettine sorgono analizzando che cosa bisogna intendere sotto le voci “priorità” e “rischio”.

Se dal lato delle priorità si possono generare sempre nuove discordie e se la questione viene interpretata non dando alle esigenze spirituali e relazionali (libertà di culto e vita comunitaria) la stessa dignità di quelle materiali (bar, ristoranti e negozi) – con buona pace di qualsiasi comitato tecnico-scientifico – dal lato del rischio, purtroppo, il pericolo resta unico e inequivocabile. Il contagio va evitato. È questo lo spirito comune che deve unire tutti, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, nella consapevolezza che la “prudenza” – invocata da Francesco a Santa Marta il 28 Aprile – ci rende più forti contro questa pandemia ed una consapevole “obbedienza” alle disposizioni non ci rende dei pecoroni.

Al netto della questione, che resta ancora un dialogo aperto (si spera con toni meno allarmisti) non mancano le iniziative e le proposte per il ripensamento di una Chiesa post-quarantena. La stessa Conferenza Episcopale ha infatti avanzato l’ipotesi di lavoro che prevede la presenza di personale che gestisca l’entrata davanti le chiese, in modo da evitare assembramenti, e l’utilizzo di termo-scanner, nonché la fornitura gratuita di mascherine per tutti i presenti. Sembra infatti verosimile, dagli ultimi aggiornamenti, che dal 18 Maggio le celebrazioni liturgiche potranno riprendere ad essere frequentate, prediligendo i luoghi aperti e rispettando le norme di distanziamento sociale.

Un messaggio di fondamentale importanza è il segnale lanciato dall’Alto Comitato per la Fratellanza Umana, che si concretizzerà giorno 14 Maggio con una giornata di digiuno e preghiera, messaggio che – apprendiamo da vaticannews – è stato trasmesso «in tredici diverse lingue, dal persiano allo swahili, per i “fratelli” che credono in Dio Creatore, per i “fratelli” in umanità ovunque».

Giovedì prossimo l’Alto Comitato per la Fratellanza Umana invita tutti a ricordare «il fondamentale ruolo dei medici e della ricerca scientifica, ma soprattutto chiede ad ogni persona, in ogni parte del mondo, a seconda della sua religione, fede o dottrina, di “rivolgersi a Dio pregando, supplicando e facendo digiuno e le opere di misericordia”, perché Egli elimini questa epidemia, ci salvi da questa afflizione, aiuti gli scienziati a trovare una medicina che la sconfigga, e perché Egli liberi il mondo dalle conseguenze sanitarie, economiche e umanitarie della diffusione di tale grave contagio”.

È dunque sulla base del dialogo interreligioso che la Chiesa ha deciso di muovere i suoi primi passi in questo momento storico segnato da una piaga non indifferente e che sta rivoluzionando gli stili di vita in tutto il pianeta. Ricordiamo che l’Alto Comitato è stato fondato nell’agosto del 2019, dopo l’incontro storico tra Papa Francesco e il grande Imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, il cui esito fu la firma del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” ad Abu Dhabi. Il comitato è composto da studiosi e leader del mondo cristiano, musulmano ed ebraico e si dedica alla promozione dei beni comuni di pace e rispetto. E forse proprio il superamento di un’antica, reciproca intolleranza religiosa in una comune preghiera potrebbe essere un contributo che la sfida del coronavirus offre all’approfondimento del concetto di pratica cristiana, che certo non può prescindere dai sacramenti ma nemmeno ridursi ad essi.