La diplomazia climatica ai tempi del Covid-19

 
 
 

Testimone dell’effetto del Covid-19 sugli impegni internazionali in materia di cambiamenti climatici è la trasformazione in ospedali da campo della Feria de Madrid “IFEMA” e dello Scottish Event Campus di Glasgow. La Feria ha ospitato lo scorso anno la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP25), mentre il Campus avrebbe invece dovuto ricevere quella del prossimo novembre, la COP26.

Per comprendere le aspettative che la comunità internazionale nutriva per il 2020 è necessario analizzare ciò che è emerso dalla Conferenza di Madrid del 2019. La COP25 passerà alla storia come una mancata occasione di accordo tra i paesi del mondo sui principali nodi esistenti nel sistema internazionale in materia di clima.

Le controversie emerse tra le parti su cui non si è arrivati ad un accordo hanno riguardato il mercato dei crediti del carbonio come previsto dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi – per cui alcuni stati hanno richiesto sia il “doppio conteggio” della riduzione di emissioni per il paese che acquista e per il paese che vende tali crediti sia l’inclusione in questo mercato dei crediti di CO2 derivanti dal Protocollo di Kyoto, che secondo gli esperti avrebbero nell’insieme indebolito l’integrità del sistema – e la revisione degli aiuti finanziari per le perdite e i danni (loss and damage) che subiscono i Paesi vulnerabili dai cambiamenti climatici – per cui sono state richieste ai paesi più ricchi risorse aggiuntive.

Due sono invece i risultati positivi da segnalare: da una parte la creazione di un piano quinquennale sulla questione della discriminazione di genere nelle questioni climatiche (il c.d. “Gender Action Plan”) e dall’altra la vittoria dei Paesi vulnerabili sul piano dell’Ambizione, ovvero sull’obbligatorietà (dunque non è più un’opzione) a decorrere dal 2020 per le Parti dell’Accordo di indicare a quanto aumenteranno i propri impegni nel taglio delle emissioni entro il 2030 nei propri “obiettivi nazionali delle emissioni” (Nationally Determined Contribution, o NDC) – ovvero piani sul breve periodo che l’Accordo richiede di rivedere o aggiornare ogni 5 anni.

Per questo si aspettava il 2020 e più precisamente la COP26 di Glasgow per un cambio di passo in favore del clima, da un lato tramite la risoluzione tecnica delle controversie e dall’altro con l’impegno alla cristallizzazione di obblighi più stringenti sulle emissioni. Ma tutto è stato rimandato al 2021 dopo una decisione congiunta tra l’ufficio di Presidenza del COP e i governi del Regno Unito e dell’Italia – co-organizzatori dell’evento – resa pubblica con una nota ufficiale il primo aprile scorso.

Allo stesso modo dell’evento principale anche quelli satellite come la “Pre-COP26” e la “Youth4Climate 2020: Driving Ambition”, ospitati dall’Italia, sono stati rinviati a data da destinarsi, così come il meeting tecnico preliminare degli organi sussidiari dell’UNFCC (SBI e SBSTA) – in cui si preparano bozze di accordi in vista della conferenza annuale – in programma per giugno a Bonn, che è slittato ad ottobre.

Oltre alle questioni tecniche rimaste aperte sui tavoli della COP25, è da sottolineare come gli impegni esistenti della comunità internazionale non siano assolutamente sufficienti ad evitare l’aumento del numero di fenomeni climatici estremi e della loro intensità. Per questo la Conferenza di Glasgow di novembre avrebbe dovuto rappresentare un giro di boa in vista degli obiettivi comuni del 2030, per decretare obbligazioni più stringenti sulle emissioni di gas serra: i paesi che nel 2015 si sono impegnati con NDC fino al 2025 hanno infatti l’obbligo di presentare nuovi piani di azione fino al 2030, mentre le parti che hanno NDC in scadenza nel 2030 – come è nella maggioranza dei casi – sono invitate a comunicare o aggiornare formalmente i loro piani sempre “by 2020”. Nonostante la sopracitata vittoria dei paesi vulnerabili sul piano dell’ambizione, nel secondo caso è prevedibile un semplice copia e incolla di questi documenti, come testimoniato dal Giappone – primo paese del G7 a presentare il suo piano – che ha semplicemente rinnovato gli obiettivi già individuati nel 2015. Giocherà un ruolo fondamentale su questo aspetto la pressione dell’opinione pubblica e della società civile, che si sta già mobilitando organizzando proteste online in questi giorni di quarantena.

In molti hanno accolto favorevolmente il rinvio del COP26. In questo modo si potrebbe guadagnare del tempo prezioso per far sì che rappresentanti e tecnici raggiungano punti di accordo risolvendo gli aspetti tecnici più di quanto si prospettasse possibile nella conferenza di novembre. In più in potrebbe cogliere la palla al balzo aggiungendo ai pacchetti di stimolo economico post-virus obiettivi climatici più ampi: una specie di catalizzatore per il go-green economico e industriale.

Esperti e funzionari di paesi in via di sviluppo hanno però sottolineato come il virus potrebbe intaccare la capacità di preparazione di NDC ambiziosi entro la fine dell’anno, vista la necessaria riallocazione di risorse verso le strutture sanitarie in crisi. Per quanto riguarda l’Europa, che ha già presentato un piano di lungo periodo per arrivare a zero emissioni entro il 2050, Frans Timmermans – Commissario Europeo per il Clima – ha riaffermato l’intenzione dell’Unione di rimanere fedele al processo avviato a Parigi, come confermato dal Green Deal concluso nello scorso dicembre nel Vecchio Continente.

Un elemento di incertezza determinante per gli equilibri delle negoziazioni sono gli Stati Uniti, secondo paese per emissioni di gas serra. Il 3 novembre 2019 Donald Trump ha presentato la notifica formale di recesso dall’Accordo di Parigi e il ritiro dalla Convenzione dovrebbe entrare in vigore a decorrere dal 4 Novembre 2020. Questo a meno che il risultato delle elezioni presidenziali previste per il 3 Novembre non veda come vincitore un candidato democratico, cosa che presupporrebbe non solo il ritorno degli Stati Uniti nella scacchiera della diplomazia climatica, ma un maggior interesse del Paese nel coinvolgere strategici partner internazionali – come già successo sotto l’Amministrazione Obama. Si potrebbe inoltre prevedere una maggiore audacia da parte di alcuni paesi per l’impegno in obiettivi climatici più ampi all’interno dei propri NDC di fine anno

Interessante sarà vedere quando la Cina, paese responsabile delle maggiori emissioni di gas serra nel mondo, presenterà il suo piano alle Nazioni Unite. Al G20 dello scorso luglio il paese ha confermato l’intenzione di pubblicare nel 2020 la sua strategia a lungo termine di de-carbonizzazione dell’economia e si è inoltre impegnata ad aggiornare il suo NDC rispetto a quello corrente, ma senza indicare una data precisa. Con l’interruzione della crescita e della sua capacità produttiva causata dal virus è probabile che il clima sia scomparso dalle priorità di Pechino. Anche in questo caso le elezioni presidenziali negli States giocheranno un ruolo fondamentale, visto che la Cina con tutte le probabilità aspetterà i risultati di queste ultime prima di ponderare gli impegni internazionali da assumersi.

Molte dovevano essere le novità e le svolte radicali per la diplomazia climatica nel 2020, ma invece permangono sempre più incognite. La minaccia del protrarsi della pandemia potrebbe costringere ad incontri in via telematica nel 2021, minando quindi la possibilità di negoziazioni vis a vis che hanno tutto un altro effetto sul gioco diplomatico. L’effetto che però il virus ha già avuto è quello di rimettere nelle mani del popolo americano le sorti dell’Accordo di Parigi, visto che in caso di riconferma di Trump alla Casa Bianca gli Stati Uniti si sfileranno da questo e molto probabilmente la Cina ridimensionerà fortemente i propri impegni in favore dell’ambiente, andando a minare il futuro stesso dell’impegno internazionale sul clima.

Come sostengono i tre co-presidenti dell’IPBES – “Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services”, organizzazione sussidiaria della UNEP – in un articolo del 27 aprile scorso: «C’è solo una specie responsabile della pandemia: l’uomo». Che l’attività umana – dalla deforestazione alla distruzione degli habitat – sia causa conclamata di cambiamento climatico e crisi della biodiversità è indubbio. La chiave per evitare i c.d. “salti di specie” – che porterebbero a nuove pandemie come quella attualmente in corso – è un maggiore sforzo internazionale a tutela dell’ambiente.

In attesa degli sviluppi internazionali ciò che ci auguriamo è che la Conferenza di Glasgow – quando e nelle modalità in cui si terrà – rappresenterà una vera e propria pietra miliare della lotta ai cambiamenti climatici, con obbligazioni incisive e regole condivise, non un’accozzaglia di deboli dichiarazioni di intenti o un palcoscenico dove litigare per le quote di carbonio.

Lorenzo De Regis


 

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