Mostre multimediali: tecnologie a parte, le idee fanno sempre la differenza

 

L’opera d’arte, sin dagli albori, veniva concepita in relazione a una data collocazione: una caverna, una chiesa, un’abitazione privata legata a sua volta alla funzione che essa ivi svolgeva – religiosa, politica, prettamente decorativa. Ha da sempre posseduto una forte dose di “sacralità”, vista come oggetto pregno di significati di varia natura: significati esaltati dal suo “contenitore” che ha sempre cercato di preservarlo in quanto eredità, testimonianza, rarità nella sua forte elitarietà. L’opera d’arte, dunque, non veniva “schiodata” dal suo luogo di nascita o appartenenza – luogo per il quale era stata creata – oppure in alternativa veniva collocata in luoghi adatti, molto spesso personali dimore, atti alla sua conservazione e fruizione dando vita, così, alla pratica del collezionismo privato. Il fenomeno ha origini abbastanza antiche: partendo dall’età del rame fino all’Ellenismo, si consolida a Roma per poi avere una forte connotazione religiosa nel Medioevo.

In Italia, durante il Rinascimento, si radicherà il fenomeno degli “studioli” , luoghi di ritiro privati riempiti di piccoli oggetti d’arte: raccolte che soddisfano l’ego del collezionista, sì, ma anche esplicative del “potere” dello stesso. E se in Italia dilaga la presenza degli studioli, in nord Europa si affermeranno le Wunderkammer o meglio conosciute come le “camere delle meraviglie”, ricche di rari artefatti di varia natura capaci, in relazione al luogo che li accoglie, di costituire tra loro un “filo narrativo” o, per meglio dire, materiale didattico o di indagine: il meraviglioso si fonde con la conoscenza.

Come non considerare, dunque, le Wunderkammer il terreno fertile ove cui prese origine il concetto moderno di museo? Dal Settecento in poi, infatti, si passa da una consultazione privata a una consultazione pubblica degli oggetti d’arte con le relative precauzioni atte a salvaguardare un bene “unico e irripetibile”. L’oggetto, dunque, si sposta, viene dislocato e denaturalizzato, insediato e catalogato dando vita alla formazione del valore artistico all’interno di un luogo “altro”, oggi conosciuto come museo, non mero luogo d’arte ma contenitore d’arte, di persone ed eventi.

Tuttavia i concetti di «unico» e «irripetibile», verranno, nel e col tempo, messi in discussione. Difatti, l’evoluzione e il consolidarsi di nuove tecniche – come per esempio la fotografia – comporteranno una riduzione della manualità (primigenio modus operandi) a favore di una riproduzione caratterizzata da una velocità prima non contemplata. Questo è ciò che teorizzerà Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ove quest’ultima, quindi, sarà la causa della perdita dell’hic et nunc ovvero «la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova»: verrà dunque meno l’aura, quell’alone di cui un’opera originale è impregnata. Non sempre all’interno di un museo, quindi, si troveranno opere originali ma anche loro fedeli riproduzioni in alternativa.

Unicità e irripetibilità, dunque, spariscono all’interno di un contesto più moderno prima, contemporaneo oggi: correnti artistiche – l’arte concettuale, per esempio – hanno introdotto la serialità come il principio del nuovo far arte monopolizzando tra l’altro il mercato grazie alla facilità di (ri)produzione. Sempre in virtù di questo “nuovo” modo di pensar arte, nell’odierno ritroviamo come mezzi ausiliari la tecnologia e il digitale fautori volenti di riproduzioni sinestetiche ad alta definizione di opere già esistenti.

Cavalcando l’onda del contemporaneo e rifacendoci proprio all’avvento della tecnologia e del digitale, degne di nota sono le opere a loro legate e, dunque, le conseguenti mostre multimediali con una“inedita modalità” di fruizione dell’arte, così come Benjamin aveva previsto, grazie al potenziale rivoluzionario dei nuovi media. Funzionano? Riguardo l’argomento abbiamo chiamato in causa Serena Giordano, docente di Pedagogia e Didattica e Antropologia delle Arti presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia.

(…) Né la materia né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent’anni in qua, ciò che erano da sempre. C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino a modificare meravigliosamente la nozione stessa di arte. Così lo scrittore, poeta e filosofo francese Paul Valéry nel suo “Piéces sur l’Art”, datato 1928, parla del mutamento dei mezzi a disposizione, della loro duttilità e della loro precisione coadiuvate da un cambiamento di idee e abitudini che hanno garantito una trasformazione profonda dell’industria del “bello”. Sono passati un bel po’ di anni dalla stesura del saggio, e l’arte e il suo contenitore continuano a essere in continua evoluzione, arrivando a coinvolgere digitale e tecnologia.

Professoressa Giordano, ritiene che la modifica sia da ritenersi “meravigliosa” alla stregua di Paul Valéry o se ne discosta? «L’avanzare della tecnologia è un dato di fatto. Credo che la tecnologia sia uno strumento neutro che si può usare in modo sensato, stupido, utile o dannoso, dipende. Prendiamo la rete. Certamente è un eccellente strumento di persuasione e manipolazione e, proprio in questi giorni, ce ne accorgiamo più che mai tra teorie complottiste e scienziati improvvisati. Ma è anche un luogo pieno di risorse, per esempio per chi studia. Inoltre, potenzialmente, è una dimensione capace di condividere una controinformazione necessaria. Il punto è possedere gli strumenti per distinguere».

Il filosofo, scrittore e critico letterario tedesco Walter Benjamin parla nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di un elemento fondamentale, l’hic et nunc, ovvero «l’Ora e Adesso» che connota l’opera d’arte nella sua unicità e irripetibilità: Dunque l’hic et nunc dell’opera d’arte originale rappresenta la sua autenticità, la sua Aura. Nel momento in cui tale opera viene riprodotta Benjamin parla della «decadenza» della suddetta aura a favore di un mero “copia e incolla”.

Ma diamo il caso ci ritroviamo dinanzi a una riproduzione digitale fedele e dettagliata, tecnologicamente capace di farci vedere qualcosa in più rispetto all’originale, viene a crearsi “un’aura altra”, magari diversa, o se ne ha la perdita definitiva? «Farei una distinzione. La teoria di Benjamin aveva senso eccome, ma oggi tutto è cambiato. Oggi (e questo Benjamin non poteva immaginarlo) assistiamo a un fenomeno opposto. L’enorme e capillare diffusione delle immagini ne ha esaltato e moltiplicato l’aura. Quanto alle immagini digitali non credo che dicano “qualcosa in più” per via della loro natura tecnica. A tutte le innovazione tecniche sono sempre stati attribuiti poteri assoluti che non avevano. Penso alla fotografia che avrebbe dovuto uccidere la pittura e, invece, ci si è alleata. Perché una copia digitale dovrebbe dirci di più rispetto all’originale? Il “qualcosa in più” si manifesta al momento in cui qualcuno, attraverso le caratteristiche specifiche di un mezzo tecnico, produce idee. Senza idee la tecnologia, di per sé, non produce un bel niente».

Mostra «multimediale» ma anche «multimodale»: cambiando il medium di comunicazione cambia, a sua volta, la comunicazione stessa. Il fruitore interagisce con l’opera grazie, talvolta, a input percettivi con i quali si relaziona con il mondo esterno. Un’arte aperta a tutti, fruibile da tutti. Un’arte liquida.

Che ne pensa del nuovo modo di comunicare dell’arte, così tecnologico, contemporaneo? È un’arte che esplica o è intrattenimento? «Se parliamo di mostre multimediali, ancora una volta, bisogna distinguere. Faccio due esempi significativi. Il primo è il “Museo della resistenza”. In questo caso, la scelta è geniale, la tecnologia interattiva si rivela un eccellente medium per mettere in relazione i protagonisti della lotta al fascismo e il pubblico in modo coinvolgente e non retorico. Il secondo è la mostra sul povero Vincent van Gogh. Ingrandire le sue opere, animarle, facendo volare i corvi del campo di grano e altre simili trovate non aggiungono un bel niente alla comprensione della sua arte. “The immersive experience” significa trovarsi “dentro l’opera”? Non credo proprio. Dentro l’opera ti ci trovi, per fare un esempio, leggendo la biografia di van Gogh scritta daSteven Naifeh e Gregory Smith che raccolgono documenti inediti sulle opere, sulla vita e anche sul presunto suicidio dell’artista».

Parliamo di costi. È più dispendioso organizzare la classica mostra o una mostra multimediale? «Immagino che la mostra multimediale tagli i costi del trasferimento delle opere da musei e collezioni, che è sempre una faccenda delicata e costosa. Ma è anche vero che le mostre cosiddette multimediali spesso sono allestite con pochi mezzi e nemmeno il loro discutibile obiettivo è realizzato. Ne ricordo una che, non avendo mezzi per la retroproiezione, proiettava le immagini sulle pareti, così le ombre degli spettatori che si accalcavano nell’inutile tentativo di vedere qualcosa coprivano tutto. Per contro, ho anche visto piccole mostre non multimediali a basso costo allestite con intelligenza. Come ho già detto, è una questione di idee. O ce le hai oppure no. Indipendentemente dagli strumenti che scegli di usare».

Interattività, sinestesia, coinvolgimento ma anche divertimento: in poche parole un nuovo modo di fruire dell’arte grazie all’impiego del digitale e delle nuove tecnologie. Crede che questo possa essere un buon modo, o meglio, accattivante per avvicinare i giovani o coloro che si dichiarano poco attratti dal mondo dell’arte? «Posso dire quello che penso? Non ne posso più di sentir dire che “dobbiamo avvicinare i giovani all’arte”. Io capisco benissimo ragazze e ragazzi che, in Erasmus, non visitano i musei, ma se ne stanno nei caffè e nei locali a divertirsi. A parte il fatto che nei locali sono nate tutte le Avanguardie artistiche del Novecento, che cosa possiamo pretendere da chi, fin dalla scuola primaria, subisce una didattica dell’arte così noiosa e insulsa come quella proposta dalla scuola? Un didattica che, incapace di rinnovarsi, cerca di far mandare giù la medicina amara dell’arte proponendo un cocktail dolciastro e sciocco: “Divertiamoci tutti con l’arte!”».

Lei crede che le mostre multimediali riusciranno a convincere i fruitori e cultori vecchio stampo i quali asseriscono che le emozioni vere scaturiscono dal “dialogo” dell’opera originale con l’Io più profondo? Riusciranno a “emozionarsi” dinanzi alla loro riproduzione formato gigante, riusciranno a carpirne l’eguale bellezza, ai loro occhi duplicata forse esagerata? «Credo che dovremmo cambiare linguaggio quando parliamo di arte. Personalmente, proporrei di bandire dal vocabolario le parole “emozione”, “dialogo”, “io profondo” e, naturalmente, “bellezza”. Le emozioni fanno parte della vita di ogni individuo e non le produce, in esclusiva, l’arte. Posso emozionarmi per la chiacchierata con un amico o per un piatto di spaghetti ben cucinato. Come ha scritto Claes Oldenburg: “Sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse e per le ammiccanti pubblicità dei biscotti. Sono per l’arte del vecchio gesso e del nuovo smalto. Sono per l’arte delle scorie e antracite e uccelli morti. Sono per l’arte dei graffi sull’asfalto. Sono per l’arte che piega le cose, le prende a calci e le rompe e le tira e le fa cadere. Sono per l’arte delle banane spiaccicate sedendoci sopra.” Il dialogo con un’opera non so che cosa significhi, mi pare solo un espediente retorico. E arriviamo all’io profondo. Qualcuno mi spiega di che si tratta? L’interiorità? Gli esseri umani, come faceva notare la filosofa Hannah Arendt, diventano interessanti solo quando interagiscono tra loro. E, casomai, è l’ esteriorità che rende possibile la manifestazione dell’unicità di ciascun individuo. Dentro (ma poi, dentro dove?), siamo tutti uguali e pochissimo interessanti. Infine, della bellezza abbiamo “abusato” davvero, come osserva Arthur C. Danto».