L’importanza del manager per la produttività italiana

 

Prima di addentrarci nell’analisi del ruolo del manager all’interno dell’attività produttiva dell’impresa, è utile richiamare alcuni aspetti relativi al concetto di produttività. Innanzitutto, è da intendersi per produttività la migliore efficienza con cui le imprese producono beni e offrono servizi, a partire da materie prime o beni intermedi, impiegando capitale e forza lavoro.

Nello specifico, se tra due imprese, durante il loro processo produttivo e a parità di input (materiali e mezzi di produzione) ce n’è una che riesce a produrre una maggiore quantità di prodotti finiti rispetto all’altra, allora si può dire che quell’impresa ha migliorato o comunque possiede una maggiore produttività nei confronti dell’altra. A livello paese, invece, la produttività aggregata è la misura dell’efficienza della nostra economia. Di conseguenza, è indubbiamente un obiettivo da perseguire come essenza del progresso economico, anche se risulta problematica la sua definizione e misurazione. La misura più diffusa è quella che fa riferimento alla produttività di un mezzo di produzione (lavoro o capitale), data dal rapporto tra il valore aggiunto e il fattore impiegato, anche se vi sono dei limiti oggettivi a tale definizione legati all’utilizzo degli input nel processo produttivo: infatti, un maggiore uso di capitale, ad esempio, aumenta il valore aggiunto a parità di ore lavorate, generando un aumento della produttività del lavoro. Diversa è l’idea dell’uso efficiente delle risorse disponibili che permettono un miglioramento della produttività a parità di input. Infatti, la produttività in senso stretto, definita anche Total Factor Productivity (Tfp), si misura proprio a parità di risorse, indicata come la quantità di valore aggiunto ottenuto, dati certi livelli di capitale e lavoro.

Si può considerare come una componente residuale, specifica di ogni impresa e causata da una moltitudine di fattori: dal capitale umano all’innovazione tecnologica, dalle pratiche manageriali alla disponibilità di credito. È tipica dei sistemi economici l’enorme dispersione di produttività, perché negli stessi mercati convivono imprese che hanno livelli di efficienza molto differenti causati dal problema della migliore allocazione delle risorse. Se, infatti, alle imprese più produttive venissero dirette più risorse, la produzione totale crescerebbe. Entra, quindi, in gioco la cosiddetta efficienza allocativa, da tenere in considerazione in funzione dell’efficienza produttiva che è data dalla capacità di gestire le risorse disponibili. È fondamentale, a questo riguardo, ricordare un fattore troppo spesso dimenticato, e che influenza nettamente il livello di produttività di un’impresa, sia essa pubblica o privata, cioè la qualità del management e, di conseguenza, il ruolo del manager.

Due interessanti analisi, pubblicate da Alessandra Fenizia ed Edward Lazear, mettono in risalto la produttività nel settore pubblico e nel privato, giungendo al medesimo risultato: un buon manager può aumentare la produttività dell’ufficio di circa il 10%. Le spiegazioni alla base di questo risultato sono diverse e, tra le principali, si annoverano: la maggiore motivazione, la migliore gestione delle risorse umane, ma soprattutto il fatto che i sottoposti ad un manager di qualità sono meno propensi a lasciare l’organizzazione senza che vi sia, quindi, dispersione delle risorse investite nella formazione. Gli studi fatti alla Harvard Business School da Nicholas Bloom, Raffaella Sadun e John Van Reenen mettono in evidenza la chiara relazione tra la qualità delle pratiche manageriali e la produttività. Un management competente è, quindi, uno strumento essenziale in grado di incidere sul livello di produttività delle imprese. Ma in Italia, chi sono i manager?

Secondo uno studio fatto dall’Osservatorio Manageriale, in Italia i manager sono il 5,3% degli occupati. Di questi, circa 500.000 sono impiegati soprattutto nel settore dei servizi e in particolare nel nord del paese (67%), in aziende di grandi dimensioni. Sono i servizi finanziari che hanno il numero maggiore di manager rispetto al totale degli occupati (29,2%). Purtroppo, la maggioranza dei manager ha più di 45 anni (71%) ed è di sesso maschile (73%): pochi giovani, con una presenza minima nella micro e piccola impresa e differenze di genere. Quest’ultimo dato, però, anche se in modo lento, è in costante miglioramento. A fronte, infatti, di un mercato che dal 2008 al 2016 ha visto ridursi circa il 5% dei posti di lavoro manageriali, tale riduzione ha colpito il segmento maschile (-9,7%), mentre le donne sono aumentate in modo significativo (+29,4%). L’Osservatorio Manageriale ha individuato tre fra le competenze più importanti per il prossimo triennio: la gestione del cambiamento, la leadership e la digitalizzazione.

Tutto questo mette in risalto come un management di qualità ha un impatto tangibile sulla produttività. Il World Management Survey evidenzia che la minore produttività delle imprese italiane è proprio imputabile alla minore qualità dei processi manageriali, determinata da due principali fattori: il familismo e l’egemonia della micro-impresa. Per quanto riguarda il familismo, Pellegrino e Zingales in una ricerca dell’ottobre del 2017 intitolata Diagnosing the Italian Disease, hanno messo in risalto che la determinante è l’assenza di meritocrazia nella selezione e promozione dei manager. Il familismo e il clientelismo portano le aziende ad assumere collaboratori più per via di legami personali che per merito o qualità, e questo contribuisce a deprimere il processo innovativo dell’impresa. Relativamente all’egemonia della micro-impresa, la qualità del management è ancor più incisiva a causa della scarsità di risorse disponibili e ad una maggiore concorrenza internazionale che soffrono le piccole e medie imprese italiane (Pmi).

Secondo il rapporto Federmanager, la qualità del management è direttamente proporzionale alla dimensione dell’impresa, perché solitamente l’impiego di figure specializzate e formate è presente in contesti più grandi e con maggiori risorse. In Italia, circa il 95% delle aziende ha meno di 10 dipendenti e spesso il manager coincide con il proprietario e le decisioni vengono prese in modo gerarchico, senza un’attenta analisi per individuare i principali trend del settore. Solitamente, quest’aspetto passa per le mani di un management competente per mezzo del quale vengono adottate nuove tecnologie, modificando quindi l’organizzazione dell’impresa al fine di renderla più produttiva e, di conseguenza, più competitiva. Bisogna precisare che però familismo e micro-impresa possono essere considerate due facce della stessa medaglia in Italia, poiché essendo tante le aziende a conduzione familiare c’è una difficoltà oggettiva e culturale nel cedere “le redini” a figure professionalizzanti, per cui si perpetua il circo vizioso della micro impresa. È necessario, dunque, definire una sinergia che permetta da un lato la crescita di produttività con il miglioramento delle competenze nelle imprese evitando il cosiddetto technological displacement, e dall’altro un cambio culturale che permetta di spezzare questa spirale familismo-microimpresa.

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in un suo studio intitolato Policy highlights on the role of managerial skills, workforce skills and business linkages, inserisce proprio la formazione manageriale fra le principali leve per aumentare la produttività nelle Pmi, in particolare nei settori tecnici e innovativi, sottolineando l’importanza delle competenze e della formazione in questo settore.

Bisogna evitare che l’evoluzione delle competenze tagli fuori i lavoratori meno qualificati, perché si rischia che la produttività in crescendo possa produrre disoccupazione. Sarebbe quindi opportuno investire nel capitale umano attraverso un percorso di redistribuzione della conoscenza per intervenire simultaneamente su produttività e disuguaglianze, affinché le competenze tecniche non siano prerogativa di una nicchia in grado di estrapolare tutti i benefici dell’innovazione, ma diventino piuttosto il motore condiviso all’interno di una crescita sostenibile, innovativa e, soprattutto, inclusiva con scambi di know-how e la condivisione, fattori essenziali per garantire una crescita nel lungo periodo. Per far questo, è fondamentale un cambio di paradigma culturale a livello nazionale che porti, da un lato, ad aumentare la dimensione delle piccole e medie imprese italiane che non dispongono delle risorse di figure specializzate e, dall’altro, ad incrementare il fattore meritocratico, spingendo ad un miglioramento del sistema di formazione (si potrebbe pensare, come fatto in Corea del Sud, di creare dei consorzi di formazione legati ai già esistenti distretti industriali italiani).

In Italia, purtroppo, solo il 29% delle Pmi fornisce formazione professionale continua, fra le più basse percentuali in Europa, e questo impedisce il miglioramento della produttività, che è il motore delle economie. In conclusione, non è tanto il progresso tecnologico a incidere sul miglioramento della produttività quanto una nuova cultura d’impresa in un mondo globalizzato che in Italia, purtroppo, è ancora in fase di apprendimento.