Lea Garofalo: il coraggio delle proprie idee

 
 

Lea Garofalo era una persona eccezionalmente normale e, proprio per questo, ascoltare la sua storia è un vero toccasana, un efficace antidoto contro il senso comune. Perché solitamente, gli eroi esulano dalla vita quotidiana ed esimono il resto dell’umanità dalla loro sfera di perfezione. Costituiscono un alibi perfetto in quanto ad essi viene delegato tutto il lavoro più difficile, quello a cui le persone normali non possono nemmeno pensare di approssimarsi. Così è più facile nascondersi dietro un comodo “e se non ce l’ha fatta lui…” nel caso in cui alla fine il miracolo non funzioni e continuare a vivere secondo la logica del “così fan tutti”.

Nata a Petilia Policastro, in Calabria, il 24 aprile del 1974, Lea visse i suoi primi sedici anni in casa con la madre e i suoi due fratelli, Marisa e Floriano. Sin da subito la sua esistenza fu segnata da drammatici episodi di morte e sparizioni; avvinta nel silenzio dell’omertà e dei codici d’onore che tutti, indistintamente, recavano la firma della ‘ndrangheta. Il padre, Antonio Garofalo, venne ucciso quando lei aveva solamente 9 mesi, nella cosiddetta “faida di Pagliarelle” e quando suo fratello lo vendicò, uccidendo i suoi sicari e divenendo a sua volta capo della cosca, la nonna e la madre applaudirono al gesto, ritenendo in tal modo riabilitato il loro nome. La giovane Lea possedeva un animo ribelle ed era sempre stata insofferente ai retaggi delle famiglie locali. Di conseguenza, una volta compiuti i sedici anni, innamoratasi del diciottenne Carlo Cosco, vide in lui la possibilità di allontanarsi definitivamente da Petilia e cambiare finalmente la sua vita. Le sue speranze vennero però tradite.

Una volta giunti a Milano, Carlo si rivelò infatti essere egli stesso un esponente di spicco della ‘ndrangheta e, quando ormai era troppo tardi, Lea si rese conto che lungi dall’essere fuggita con l’uomo che amava, aveva semplicemente trovato un nuovo carceriere. Presa da una profonda depressione per quell’ennesima sconfitta, nel maggio del 1993 tentò anche di suicidarsi ingerendo del veleno, e venne salvata in extremis. In particolare, Carlo portò Lea e la piccola Denise, nata dalla loro unione, in un condominio occupato abusivamente dalla famiglia Cosco. Teatro di attività illecite, legate allo spaccio di sostanze stupefacenti e al traffico di armi, lo stabile era infatti meglio noto come “la casa dei calabresi”. Esattamente quattro anni dopo il loro arrivo a Milano, Carlo venne arrestato per droga e condotto in manette presso il carcere di Catanzaro. Lea lo andava a trovare spesso portando con sé la figlia ma dopo i primi colloqui prese la decisione di lasciare il convivente e ricominciare da capo.

Nonostante le pressioni ricevute sia da parte del fratello, che le fece incendiare l’auto, sia dalla famiglia Cosco, Lea rimase ferma nel suo proposito e il 13 luglio 2002 compì l’ennesimo atto di sfida e disobbedienza nei confronti dei codici d’onore con cui era cresciuta: divenne una testimone di giustizia. Entrata in un programma di protezione insieme a Denise, Lea lasciò il lavoro che aveva trovato in una caffetteria e cominciò un lungo viaggio, da una residenza sicura all’altra, attraverso l’Italia. Da Ascoli Piceno a Fabriano, da Campobasso a Udine per poi arrivare a Firenze, madre e figlia videro le loro vite spezzarsi lentamente sotto il peso di una profonda solitudine. I continui spostamenti non consentivano di stabilire solide relazioni e nessun membro della famiglia Garofalo, nonostante il legame di sangue, sembrava condividere le scelte di Lea che aveva finito col tradire tutto quello in cui credevano divenendo di fatto un infame. Naturalmente ne risentivano anche gli studi di Denise, costretta frequentemente a cambiare scuola e programmi mentre Lea, non potendo più lavorare, doveva contare solamente sui contributi dello Stato e sugli aiuti che mensilmente le inviava la madre.

Nel frattempo, un nuovo fatto aumentò la sua angoscia silenziosa: il primo dicembre del 2003 venne scarcerato Carlo Cosco. Una volta libero l’ex convivente della donna cominciò a cercarla senza sosta fino a quando il fratello di Lea sotto le continue pressioni della cosca del genero, aiutato da suo cugino Gennaro che era stato militare di Leva nell’arma dei carabinieri, riuscì a ritrovarla violando la banca dati del ministero dell’interno. Questo episodio insieme all’omicidio di Floriano, assassinato nel 2005 per mano dei Cosco, convinse definitivamente Lea ad uscire dal programma di protezione. Chiamò allora la sorella, chiedendole di contattare Carlo, in modo tale da ottenere l’autorizzazione per poter tornare in Calabria con la figlia. Stremata da sette anni di fughe e tensioni, Lea pensava infatti che, mostrandosi innocua di fronte ai Cosco e consentendo a Denise di vedere suo padre, sarebbe finalmente riuscita a vivere serenamente. Avendo ricevuto il via libera, madre e figlia tornarono dunque a Petilia dove rimasero per due settimane. Denise doveva terminare gli ultimi due mesi di liceo e dato che Lea non poteva più permettersi l’iscrizione fu costretta a chiedere aiuto a Carlo Cosco che, affittato un appartamento a Campobasso, mandò a vivere con loro la nonna e il cugino. Questo stato di cose durò sino a Maggio 2009.

Un giorno, infatti, mentre Lea e la figlia erano sole in casa, Massimo Sabatino, esponente dei Cosco, si introdusse nell’abitazione sotto le mentite spoglie di un idraulico chiamato per aggiustare la lavatrice. Una volta dentro tuttavia tentò di strozzare la donna ma il suo piano fallì grazie all’intervento di Denise, che attirata dai rumori improvvisi riuscì a metterlo in fuga. Nonostante la consapevolezza che dietro i fatti di Maggio si nascondesse la mano dei Cosco, nel novembre di quello stesso anno, Lea e la figlia accettarono l’invito di Carlo e tornarono a Milano per una breve vacanza. Lea infatti era più decisa che mai nel voler riallacciare i rapporti con l’ex convivente e la famiglia, ritenendo che solo in tal modo avrebbe potuto restare in vita e garantire a Denise il sostegno economico che lei non poteva più prometterle.

Nel tardo pomeriggio del 24 novembre, ultimo giorno della loro permanenza a Milano, madre e figlia stavano passeggiando lungo Corso Sempione, quando Carlo Cosco le accostò chiedendo a Lea di aspettarlo mentre accompagnava Denise dagli zii. Quando alle 22:00 Cosco fece ritorno a casa Lea non era con lui. Raccontò allora alla figlia che la madre si era allontanata dopo che si era rifiutato di concederle una somma di denaro maggiore rispetto a quella per la quale erano rimasti d’accordo e accettò di accompagnarla in giro per la città alla sua ricerca. Andarono persino dai carabinieri dove Denise insistette per presentare una denuncia nei confronti del padre: era ormai consapevolmente rassegnata all’idea che non avrebbe più rivisto Lea. Nell’ottobre del 2010, in seguito alle dichiarazioni di Denise, Carlo Cosco, i suoi fratelli Giuseppe e Vito, Massimo Sabatino e Carmine Venturino vennero arrestati e, nel luglio del 2011, ebbe inizio il processo di primo grado, all’interno del quale, il Comune di Milano, Denise, la sorella e la madre di Lea, si costituirono parte civile. Nel corso del giudizio fu chiamato a testimoniare tra gli altri Salvatore Cortese, boss della ‘ndrangheta, che dal 1996 al 2003 aveva condiviso con Carlo Cosco una cella nel carcere di Catanzaro.

Dalle parole di Salvatore emersero nuovi inquietanti dettagli di quella vicenda. In particolare risultò chiara la determinata crudeltà e freddezza di Carlo, che già a partire dagli anni della detenzione aveva maturato il disegno criminoso dell’uccisione di Lea e, una volta libero, l’aveva portato avanti, senza mostrare mai alcun rimorso, chiedendo l’aiuto di Cortese e degli altri capi nel compimento della sua vendetta. Dopo la pronuncia della sentenza che condannò i sei imputati all’ergastolo Carmine Venturino, che con Denise aveva avuto una breve relazione, decise di collaborare raccontando agli inquirenti l’accaduto e facendo scagionare Giuseppe Cosco che era in realtà estraneo ai fatti. Venturino spiegò che era stato proprio Carlo Cosco ad uccidere la propria ex convivente, conducendola con l’inganno nell’appartamento di proprietà del suo amico Massimiliano Florense e strozzandola col cordino usato di solito per raccogliere le tende. Dopodiché la donna era stata legata, infilata in uno scatolone e trasportata ormai esanime nei pressi del cimitero di San Fruttuoso, a Monza. Qui Cosco e i suoi complici le avevano dato fuoco e avevano gettato i suoi resti in un tombino nascondendoli alla vista.

La Corte di Appello di Milano rivide dunque le pene stabilite, confermando nell’aprile del 2013 l’ergastolo per Carlo e Visto Cosco e per Massimo Sabatino e riducendo a 25 gli anni di reclusione per Carmine Venturino in virtù della sua collaborazione. Ritrovato finalmente il cadavere di Lea il 19 ottobre dello stesso anno si poterono celebrare i suoi funerali in una Piazza Beccaria gremita di gente. Momenti di grande commozione, canzoni, ricordi e la voce di Denise che, ritrovata la libertà risuonò forte nell’aria: “perché se questo è successo, tutto questo è successo per il mio bene… Ciao mamma”.